venerdì 30 settembre 2016

Frammenti di un discorso

Non per plagiare il saggio di un noto semiologo francese, ma mi piace poter raccogliere qui dei recenti estratti di conversazione con mia figlia.

"Matilde, oggi la maestra mi ha raccontato che a un certo punto ti è venuto da piangere, e loro non sono riuscite a capire cosa ti ha fatto essere triste in quel momento. Cos'è stato a farti piangere?"
"Volevo la mamma."
"Ah, volevi la mamma, ho capito. Beh, senti che idea mi è venuta!"
"Quale idea?"
"Per aiutarti a far capire alle maestre quello che ti è successo, quando capita che ti viene da piangere, possiamo costruire insieme dei piccoli cartoncini, fatti così. Guarda. Qui ho raccolto delle immagini di bambini che fanno le cose che possono succedere a scuola: una bimba con la sua mamma che l'accompagna per mano, un bimbo seduto sul water...
"Sì! Guarda, nel disegno c'è la carta igienica che sorride!"
"Eh già! Buffo! E poi un bimbo che dà uno spintone a un altro, qui invece un bimbo che beve un bicchiere d'acqua, un altro che ha la febbre..."
"Sì, ha pure il termometro in bocca!"
"Esatto, hai visto? Vuol dire che non si sente molto bene. Ecco, adesso li stampiamo tutti, anche questi altri cinque, li ritagliamo e li incolliamo su questi cartoncini più spessi, così diventano dei cartellini più resistenti."
"Sì! E io poi posso colorarli?"
"Certo! Poi li mettiamo in una scatolina e li portiamo a scuola, e li tieni dentro alla tua buchetta personale. Così, quando capita che vuoi qualcosa ma ti viene difficile dirlo con le parole, invece di piangere, puoi prendere dalla tua scatolina il cartoncino con l'immagine corrispondente a quello che vuoi, e mostrarlo alla maestra. Che ne dici?"
"Va bene."
"Però ascoltami, Matilde: i cartoncini li usiamo per adesso che le parole fanno un po' fatica ad uscire, ma quando te la sentirai, sai, puoi provare a usare le parole per far capire esattamente alla maestra quello che vuoi. Perché adesso ne abbiamo fatti dieci, di cartellini, ma possono esserci tante altre cose che non siamo riusciti a mettere nelle immagini, e che con le parole si riescono a far capire meglio. Oppure, Matilde, puoi provare a fare come fai con la mamma, a dire le parole nell'orecchio..."
"Sì! Ma io lo dico ad Aurora!" 
"Che cosa dici ad Aurora?"
"Le parole nell'orecchio, così."
"E ad esempio che cosa le dici?"
"Dico: mi scappa la pipì!"
"Ah sì? E lei cosa fa?"
"Dice: va bene, adesso ti accompagno io."
"Ah, bene! E con Amira [altra amica del cuore, ndr], le dici le parole nell'orecchio?"
"No, con lei no."

Il mutismo selettivo è strano. Le sue logiche. Impossibile capirle. 
Perché uno sì, e l'altro no? Perché una volta sì, e la volta dopo no?
E poi, tu, genitore, vedi due persone diverse. E' sempre tuo figlio, certo, ma quello che tu vedi ogni giorno in casa, è in un modo. Buffo, allegro, capriccioso, esuberante, disobbediente, fantasioso, frizzante, spensierato, divertente. Loquace. Quello che vedono gli altri, invece, là fuori, è in un altro. Timido, docile, introverso, intimorito, esitante, che si vergogna, che si nasconde dietro la gonna, che sta zitto. E non parla. 
E come mai non parla. E gli avranno mangiato la lingua. 
Ma quale mangiato la lingua! Non immaginano nemmeno... 
Se solo sapessero, se solo vedessero...

"Matilde, vieni che ti accompagno a letto, dai, su, forza!"
"Sì, ma mi leggi le favole?"
"Certo! Quale vuoi che ti legga?"
"Quelle della biblioteca!"
"Va bene. Iniziamo da questa: La Piccola Macchia Rossa."
"E mi fai le carezze?"
"Sì, tu intanto mettiti giù e ascolta la storia. Allora, vediamo. C'era una volta una piccola macchia rossa, che viveva insieme a tante altre macchie nel Paese delle Macchie. La piccola macchia rossa era molto curiosa e voleva scoprire il mondo. Un giorno salutò i suoi amici e si mise in viaggio. La piccola macchia rossa si incamminò lungo una strada, [...] all'improvviso il paesaggio cambiò aspetto e tutto intorno a lei si fece verde. Qui è diverso da casa - mormorò la piccola macchia rossa. Non si sentiva più a suo agio. Era diventata un piccolo punto rosso tutto solo in mezzo a tanto verde... Matilde, e tu? Dov'è che ti senti a tuo agio?"
"..."
"Dov'è che stai bene, che ti senti più a tuo agio?"
"Qui a casa."
"E poi?"
"A scuola."
"E poi?"
"Dai nonni."
"Mh-mh."
"E qui, con mamma e papà."

Le schiocco un bacio in fronte.
A volte provo a cercare di capire come si senta. Prendo spunto dalla situazione. Sinceramente, non mi aspettavo dicesse la scuola. Ma bene così: vuol dire che, nonostante il suo mutismo, è un luogo per lei piacevole. Del resto, questo sta a dimostrazione del fatto che i bambini con mutismo selettivo non rifuggono la relazione con gli altri, anzi: vorrebbero potersi esprimere liberamente con le parole, come fanno a casa, ma non ci riescono. 
La coccolo ancora un po'.

"Sai Matilde, la mamma è davvero tanto contenta di avere una bambina come te!"
"Dai, smettila!"
"Vieni qui, fatti dare un altro bacino!"
"Dai!" mentre ride.
"E tu? Sei contenta di avere una mamma come me?"
"Sì."
"E un papà come papà? E una sorella come la Michi?"
"Sì-ì."

E poi, scambiandoci tanti altri sorrisi, continuo la favola della buonanotte.



sabato 24 settembre 2016

La sana pre-occupazione

"Chiara, non preoccuparti, si sbloccherà, adesso è ancora piccola, quando crescerà vedrai che passerà da solo."
Le rassicurazioniin realtà, mi creano ancor più confusione
Sì, d'accordo - mi dico - sto tranquilla: eppure io sento di non dovermi accontentare, sento di non potermi affidare semplicemente a una vaga speranza.
E quindi, che fare? 
Lascio stare o cerco soluzioni?
Certo, ci siamo già rivolti alla specialista. Ma avrei voluto che fossimo seguiti di più. Certo, ci ha detto come fare, gli accorgimenti da utilizzare. Ma avrei voluto un percorso di incontri, per provare se non altro a darle un input, per dimostrarle che ce la può fare. Ci è stato prospettato, invece, un semplice monitoraggio periodico del disturbo. 
Lo so, il lavoro grosso spetta a noi genitori. 
Noi, in collaborazione con il resto della famiglia, e con gli insegnanti o educatori in generale. Sì, perché è il suo contorno ambientale, che deve essere "trattato". Essendo una difficoltà legata alla relazione con gli altri, e non alle competenze cognitive del bambino, occorre agire sul contesto, piuttosto che su di lui direttamente. 
Far conoscere, a coloro che interagiscono con un bambino selettivamente muto, una diversa modalità di relazionarsi, una diversa strategia comunicativa. [*]
E' questa, però, la cosa che mi dà maggiore tormento. Come trovare le giuste parole per dirlo? Come provare a spiegare agli altri cos'ha e cosa fare, senza sembrare troppo didascalica o inopportuna? Probabilmente, sarà tutto molto semplice e naturale, e sono io che come al solito mi faccio inutili viaggi mentali.
Mi sorprendo allora a fare le prove, a preparare un canovaccio, a simulare la conversazione, a prendere appunti
Quando ho discusso la tesi di laurea, avevo meno stress. 
Per dire. 
Vuole fare musica. Bene. Devo informare il maestro di musica. 
Vuole fare ballo. Bene. Devo informare le insegnanti di ballo. 
Capiranno?
Collaboreranno?
"Matilde ha un disturbo d'ansia, si chiama mutismo selettivo. E' la difficoltà a parlare con gli altri in contesti sociali, mentre invece a casa o dove si sente sicura e rilassata parla normalmente. Non è un rifiuto o un'opposizione, ma è un'incapacità a parlare. Vorrebbe ma non riesce, perché prova una sensazione di ansia e paura che la blocca. Prima cosa da fare: evitare di insistere affinché parli. Si otterrebbe l'effetto contrario di un'ancor maggiore chiusura, poiché sente la pressione dell'aspettativa su di lei. Seconda cosa da fare: adottare degli accorgimenti per farla comunque partecipare e coinvolgerla nelle attività, ma senza che le sia richiesta la performance vocale. La voce è congelata dalla paura. Occorre creare un clima il più possibile sereno e rilassato così da favorire le condizioni per una possibile verbalizzazione. Occorre saper interagire nonostante lei non se la senta di parlare: in questo modo, gradualmente, quando lei percepirà che l'ambiente circostante non le impone di esprimersi con le parole, ma accetta la sua difficoltà, permettendole di sciogliere l'ansia che le sale addosso, potrà sentire finalmente che è in grado di farlo."
Che polpettone! Troppo prolisso. Troppo manualistico. 
Certo, l'essenziale è questo. 
Provo a dirlo in soldoni.
"Matilde parla con mamma, papà e nonni. Con gli altri, no. Il motivo è l'ansia: la sensazione di paura, che prova, le blocca le parole in gola. Lei cerca la relazione, non si tira indietro: ma è più forte di lei, per adesso non ce la fa. Meglio evitare quindi di chiederle di parlare: non lo farà, anzi, si chiuderà di più. Farla partecipare, coinvolgerla, questo sì: ma senza forzarla ad esprimersi verbalmente. Fornire magari un'alternativa gestuale, a tutto il gruppo, per non isolarla. Per esempio. Adesso proviamo a riconoscere le note musicali: chi vuole può dire la nota cantandola, oppure può indicarla sulla tastiera."
Ecco, più o meno così.
Troppo diretta? 
Oh, insomma, alla fine quello che importa è che passi il messaggio. 
Siate delicati con sua difficoltà.
Sono sua madre, io. Ovviamente parlo da persona estremamente "di parte". E' che voglio semplicemente aiutarla. E' normale, qualsiasi genitore vuole cercare di essere di supporto e conforto per il proprio figlio.
E quindi, in definitiva, al contrario di tutti quelli che mi dicono di non preoccuparmi, sono invece contenta di essermi pre-occupata.
Di essermi - in senso etimologico del termine - "occupata prima" del suo disturbo. Il prima possibile. Prima che il tempo trascorso a dire "passerà, crescerà, parlerà" possa far perdere occasioni preziose per cercare di liberarla dagli strati di paura e ansia, che, invisibili a noi, finiscono invece per depositarsi come una nevicata sul suo cuore.
Aggiungo, in conclusione, un pensiero che prelevo dalla memoria di quando frequentai il corso pre-parto, dove una bravissima ostetrica, molto "rock", ci fece riflettere sulle fasi della gravidanza. 
Ne indicò tre, di fasi, nei nove mesi di vita intrauterina, che rappresentano in parallelo le tre fasi del parto e anche del post-parto, nei primi nove mesi di vita del neonato. E credo possano essere traslate anche ai periodi, più o meno lunghi, che vengono vissuti durante il percorso attraverso il mutismo selettivo. 
Ciascuno può riflettere su queste parole chiave, pensando alla propria esperienza. 
La prima fase, dominata da sensazioni confuse e contrastanti: è quella dell' adattamento, dell' accettazione, dell' apertura. Quando scopri che qualcosa sta cambiando, quando ti accorgi che c'è qualcosa di nuovo, quando ti prepari ad accettare il cambiamento, quando ti apri ad accogliere una nuova situazione.
La seconda fase, cosiddetta "dilatante", ma che è quella della socialità, della forza, della sicurezza. Quando cerchi di saperne di più, quando impari a conoscere cos'è, quando ti senti forte per affrontare quello che accade, quando ti confronti con altre esperienze simili. 
La terza fase, quella della separazione, del bambino che comincia a percepirsi separato dalla madre, dell' autonomia. Quando sai che il tuo compito sta per cambiare, quando la protezione diventa spinta e incoraggiamento, quando dimostri di avere fiducia nelle sue capacità e lo stimoli a provare da solo. Quando sai che lo accompagnerai per mano.
E infine, la raccomandazione che mi ero annotata, tra gli appunti del corso.
Più si sta con quel che c'è, più si sta in ascolto del bambino. Ed è in questo modo che si fa il meglio per lui. 




[*] Tolgo per ora dal contesto quelle persone "di passaggio", che in modo estemporaneo chiedono "Ma perché non parla?" oppure il classico "Ti hanno mangiato la lingua?", che è anche il titolo del libro chiave di cui parlo qui.

martedì 20 settembre 2016

Sperimentando la parola

A volte è successo. 
Ha parlato. 
Spontanea. Tranquilla. Felice.
Un anno esatto fa, una sera eravamo andate a casa di una delle amiche più strette di Matilde, una sua compagna di classe. Nella casa, soltanto le due bambine, l'altra mamma, e io, incinta al nono mese. Ci fu un momento della serata in cui mi ritrovai insieme alle piccole al piano superiore, mentre la mamma di Aurora stava preparando la cena nella cucina al pian terreno. 
Stavano giocando, o meglio, una mostrava i suoi giocattoli e l'altra li osservava incuriosita e al tempo stesso esitante. Indecisa se prenderli e provarli, oppure stare solo a guardarli. Mi inserisco io, come spesso faccio. Commento. Suggerisco un dialogo. Rispondo al posto suo. Sarà giusto? Meglio tacere? Ormai l'ho fatto. Spesso vado molto "di pancia". Improvviso. In base a come sento in quel momento.
Poi, a un certo punto ad Aurora scappa di andare in bagno, e io e Matilde rimaniamo nella camera da sole. Mi viene naturale coinvolgerla in un gioco "adrenalinico", che so la diverte sempre molto. Anche per metterla più a suo agio. E così mi metto in piedi con le mani unite sopra la mia testa, e lei comincia a girarmi intorno. Piano, poi sempre più forte. Corre. Ride. Ogni tanto, quando passa davanti, con una mano le punzecchio il sedere. Risate. Urletti. 
"Dai, mamma! Non farmi così!" Altre risate.
"Cosa state facendo?" Arriva l'amichetta.
"Stiamo facendo che io sono il palo birichino, che vi morde il sederino!"
"Aaahhhh!" 
E via insieme a corrermi intorno. 
"Mamma, ancora! Dai metti le mani su!"
"Sì, ancora!"
Il clima è sereno, disteso, rilassato. E anche io lo sono, mi diverto. In quel momento, non sono la mamma, l'adulto, l'autorità. Sono una tata, una complice, una loro compagna di gioco. Sono al loro livello. E ridiamo insieme. 
Era già capitato che dicesse qualche parola a scuola, unicamente rivolta ad Aurora o all'altra amica a lei più vicina. Ne ho prova dalle testimonianze della maestra, che mi riporta gli "avvistamenti" uditivi della voce di Matilde, da parte dei compagni di asilo. 
Mi aspettavo dunque che avvenisse uno scambio verbale tutto sommato "easy" con la sua amica. Come in classe. Stavolta, però, eravamo in un ambiente diverso, sconosciuto, le mura di una nuova casa. E infatti, il suo eloquio si verificò soltanto nel frangente descritto. Manco a dirlo, la parola di Matilde tornò ad interrompersi appena scendemmo per la cena al piano di sotto. 
Ma va bene così.
Un altro episodio del genere, che mi ha scatenato un moto interiore di gioia e soddisfazione, diligentemente dissimulato, è successo pochi mesi fa. 
Attorno al tavolo della cucina, nella casa dei miei genitori, io con le mie figlie e mia zia. Altra figura che ad un certo punto, non so perché, è "saltata" nell'altro gruppo, quello delle persone con cui Matilde non è disposta a parlare. Stavo tranquillamente raccontando alla zia, che semplicemente ascoltava, la nostra serata precedente. 
"C'erano poche persone, ieri sera, al chiosco. Dopo il gelato, siamo andate nel giardino lì accanto, dove ci sono le giostrine per i bimbi. Matilde è voluta andare su una delle due altalene..."
"Quella dei piccoli!" mi interrompe lei, completando la frase.  
"Esatto, Matilde, quella dei piccoli. E poi abbiamo fatto altri giri su quell'altra..." Eccetera.
Vado avanti a raccontare, ma l'ho colto, nei suoi occhi. 
Appena ha pronunciato con naturalezza quelle tre parole, a voce ben udibile e chiara, si è materializzato sul suo volto uno sguardo preoccupato, che riproduce l'equivalente di: oh caspita, mi è scappato, l'ho detto, e lì c'è la zia, l'ha sentito, adesso che succede.
Nulla succede, hai visto? 
Allora mi sono chiesta: cos'è che le ha sciolto, in quel momento, l'ansia, la paura? E' stato soltanto casuale? Oppure ha contribuito il mio atteggiamento? 
Forse non fa statistica, ma mi sono accorta, da questi sporadici episodi, che più io sono spensierata e rilassata, più favorisco le condizioni per il suo sblocco. Per il suo "scongelamento". 
Gli stati d'animo si trasmettono, sono contagiosi. Questo lo so. 
E allora viva la spensieratezza!
E viva soprattutto la possibilità, per i bambini selettivamente muti, di sperimentare la parola in contesti rilassati.
A questo proposito, segnalo una bellissima esperienza realizzata dall'Associazione A.I.MU.SE., in collaborazione con la rete di Medici in Famiglia. Per la prima volta in Italia - e forse in Europa - nell'agosto 2015. 
La "vacanzina": un intervento intensivo di terapia residenziale, o meglio, "una tre giorni" trascorsa da bambini con mutismo selettivo, insieme ai loro genitori e a vari operatori, esperti, specialisti e professionisti, ospitati tutti sul lago d'Orta, nella villa messa a disposizione dalla fondazione partner del progetto. Presentato durante un convegno a Milano nell'aprile scorso, dove gli organizzatori espongono gli emozionanti risultati positivi. Nella condivisione di uno spazio comune, nel vivere la quotidianità a contatto con persone sconosciute, ma accomunate da una stessa condizione, da uno stesso stato emotivo, dalle stesse paure e speranze, si è vissuta l'esperienza di uno scambio graduale, protetto, rilassato.
Ecco, a volte ci vorrebbe proprio. Un luogo e un tempo - e un contorno di confortante e positiva umanità - per allontanare un po' tutte le insicurezze, tutti i disagi, tutte le ansie e le paure. 
Un posto dove essere sé stessi. 
E poter sperimentare, in mezzo agli altri, la propria libertà.
Anche di parlare.



giovedì 15 settembre 2016

Ricomincia la scuola

"Matilde, dai, tìrati su i pantaloni, ché lo sai fare. Quando andrai alle elementari, lo dovrai fare da sola, sai."
"Sì, papà. Poi alle elementari devo anche parlare!"
"Sarebbe meglio. Così puoi ripetere alla maestra quello che hai imparato."
Questa conversazione è avvenuta in bagno qualche giorno fa. Me la riferisce il mio compagno.
Allora - mi dico - ne ha consapevolezza! Lo sa, se ne accorge, lo avverte, che nel contesto scolastico - così come anche in altre situazioni sociali - non riesce a parlare. Che vorrebbe, ma si blocca. E che gli altri lo sanno, se ne accorgono, vorrebbero che parlasse, la stimolano. Ma così facendo, la sua paura - la sua ansia - sale e sale e glielo impedisce ancora di più. 
Sto leggendo i materiali che mi ha gentilmente inviato la Presidente dell'Associazione A.I.MU.SE.. Articoli scientifici, testimonianze di casi trattati, estratti di testi accademici, manuali didattici, decaloghi strategici. Alcuni più tecnici, altri molto efficaci e scritti bene. 
Da un lato, più leggo più mi sento preoccupata. Vuoi per il senso di colpa - sono stata io, ho fatto qualcosa che non dovevo fare e che le ha procurato questo disagio. Vuoi per la frustrazione di non sapere come aiutarla al meglio - il discorso con la neuropsichiatra che ha iniziato a seguirla, mi sembra un vicolo cieco, che alla fine ci lascia a noi stessi, al nostro buon senso, alla nostra volontà di seguire i semplici suggerimenti dati: evitate di forzarla, favorite le attività ricreative in piccoli gruppi, aspettate che si risolva da solo. 
Dall'altro, sento che devo fare qualcosa, devo aiutarla di più. Manca soltanto un anno all'inizio delle elementari, e la sua serenità da questo punto di vista è la cosa che più di ogni altra mi sta a cuore.
Ho preparato una piccola dispensa per le maestre di mia figlia. Una di loro la conosciamo già dall'inizio del percorso della materna, e l'altra la conosceremo per la prima volta. L'ennesima insegnante di un ricambio perpetuo, a cui temo di dovermi - e doverci - abituare. Pochi fogli, ricavati dai materiali dell'Associazione, per dar loro uno strumento in più nel cercare di affrontare al meglio la difficoltà di Matilde. Spero che li leggeranno e che terranno conto di quei pochi ma fondamentali suggerimenti e indicazioni sul modo di approcciarsi in maniera positiva per lei. 
So che non devo temere, perché Matilde è amata dalle maestre e cercata dai compagni, non si isola dal gruppo né viene isolata, ma quello che mi spaventa di più è una possibile esclusione. E una probabile auto-esclusione. E' una paura futura, che riguarda il passaggio al nuovo, alla scuola primaria. Che insegnante troverà - e troverò? Sarà disponibile a cercare strategie e accorgimenti efficaci e inclusivi, per coinvolgerla senza farla sentire diversa dal resto della classe? E i compagni? La eviteranno, per il fatto che non parla? La prenderanno di mira, verrà umiliata? E lei, come si sentirà? Diversa, inferiore, frustrata?
Ci penso sempre più spesso. 
E questo pensiero mi fa star male. 
L'incertezza di non sapere come evolverà. 
Ma so che devo essere fiduciosa. E' questo che devo trasmetterle. 
E' che vorrei una didattica inclusiva. Vorrei che tutti gli insegnanti del mondo ne capissero davvero l'importanza e fossero in grado di metterla costantemente in atto.  
Ad esempio, nel momento dell'appello, l'insegnante piuttosto che dire "Quando chiamo il vostro nome, dite: presente. Tu, invece, che non lo dici, puoi alzare la mano" potrebbe usare una frase più neutra e inclusiva, del tipo "Adesso facciamo l'appello: chi vuole può dire presente, oppure alzare la mano". Oppure, quando si tratta di fare le verifiche, anziché farle oralmente per tutti tranne che per il bambino con difficoltà, riservando solo a lui la prova scritta, si potrebbe programmare per una metà della classe la prova orale e per l'altra metà - in cui verrebbe compreso il bambino in questione - quella in forma scritta. E poi, alla successiva verifica, invertire i due gruppi, sempre facendo in modo che per lui sia nuovamente assicurato lo scritto. 
In modo da non farlo sentire isolato, diverso, addirittura privilegiato rispetto agli altri. Perché le misure didattiche messe in atto nei confronti di un bambino selettivamente muto sono compensative, non dispensative. Servono a compensare una sua difficoltà, non a dispensarlo dall'impegno richiesto [*].
E così continua l'avventura. 
E ne comincerà una nuova, e io mi sentirò più forte nell'affrontarla insieme a mia figlia. 
Una frase attribuita al Dalai Lama dice: "Nulla se ne va, prima che ti abbia insegnato ciò che devi imparare".
Ecco, forse in questa avventura c'è un insegnamento anche per me.




[*] Si precisa che nei casi di DSA, Disturbi Specifici di Apprendimento, è necessario invece prevedere sia strumenti compensativi che misure dispensative. 

martedì 13 settembre 2016

Sul possibile comunicare

Com'è difficile anche con milioni di parole! 
Intendersi. Capirsi. Comprendersi.
Figurarsi senza. 
Eppure, passano molti più messaggi attraverso la gestualità, la postura, le espressioni, che non con il linguaggio verbale. Nel comunicare con l'altro, le parole rappresentano solo il sette per cento di quello che trasmettiamo. Tutto il resto viene, appunto, dal nostro corpo.
Ne usiamo così tante, di parole! Ma ancor prima di essere ascoltati, veniamo vistiDopo quella dell'homo sapiens, siamo ormai nell'era dell'homo videns, delle immagini che costantemente ci invadono, colpiscono la nostra mente e plasmano la nostra percezione. Il primato della vista su tutti gli altri sensi. Dopo secoli di oralità, di storie tramandate di bocca in bocca e ascoltate da generazioni, è infine con gli occhi che abbiamo imparato a catturare i messaggi più potenti. Dalla scrittura all'arte visiva.
La nostra comunicazione è quasi completamente centrata sulle parole. Non siamo abituati ad altri modi di relazionarci. Del resto, il linguaggio verbale è soltanto un codice, un sistema che ci permette di essere tutti d'accordo sul significato di una cosa, quando vogliamo indicarla o riferirci ad essa anche in sua assenza. Se però domani, ad esempio, venisse stabilito che per dire "acqua" si debba fare una pernacchia, in tutti i bar, attorno alle tavole, sulle spiagge, si sentirebbero solo delle lingue scorreggianti. Questione di convenzioni.
E così, abbiamo deciso di usare le parole. E' piuttosto comodo, in effetti. E solitamente, in una interazione tra persone, tutti quanti ci aspettiamo che ci si parli l'uno con l'altro. Funziona così. Ma quando non funziona, invece?
A volte osservo Matilde nei suoi momenti di silenzio, di mutismo. Selettivo, come sempre. Cioè quando il canale verbale di comunicazione si interrompe con tutti gli altri - tranne che con me, ma a volte anche con me - appena entra in una situazione di socialità dove l'espressione verbale è attesa e richiesta. 
Con il suo cuginetto di otto anni, ad esempio - con cui parlava fino a non molto fa, ma da qualche tempo a questa parte non più, e forse il perché ha come sempre a che fare con l'aspetto richiestivo nell'interazione - si è creato un diverso modo di comunicare. O meglio, hanno trovato un sistema per ovviare alla difficoltà di Matilde nel far uscire le parole. O perlomeno, una maniera per consentirle di rispondere alle domande che lui le porge. Per capire, insomma, i suoi bisogni e desideri. Cosa vuole in quel momento. 
"Matilde, vuoi restare qui o andare a giocare? Così è restare, e così è giocare. Quale scegli?"
Glielo dice mentre le mostra il solo dito indice alzato, corrispondente alla prima opzione, e successivamente le due dita messe a V, per indicare la seconda proposta. 
Matilde fa con la mano il segno della V. 
Ovvio, giocare.
E così ho visto fare anche da altri parenti. Pugno destro, prima opzione, pugno sinistro, seconda opzione. Scegli. Matilde indica il pugno corrispondente alla cosa desiderata. 
Da un lato, quando osservo la scena, mi viene da pensare che venga sminuita. Mi dico: non è che non capisce, mia figlia, è solo temporaneamente ammutolita. E mi chiedo: si sentirà svilita da questo metodo? Si sentirà trattata da stupida? E' che io non lo so, come si sente lei. Non lo posso sapere. E mi dispiace, non saperlo. 
Ma poi, dall'altro lato, penso che invece non sia così. Se funziona, perché no? Vedo che lei lo accetta tranquillamente. Anzi, magari le risolve il problema del non riuscire a parlare. Si sentirà forse sollevata dall'ansia del dover rispondere. Una soluzione accettabile. Un compromesso transitorio. 
Comunicare.
Si. Può. Fare. 






giovedì 8 settembre 2016

Conosci te stesso

Faccio qualche considerazione che esula un po' dal tema del blog. Ma forse neanche troppo.
Ho sempre scritto, a partire dall'adolescenza. Scrivo per me stessa, uso la scrittura come sfogo. E' proprio un bisogno, che sento. Far uscire i pensieri dalla testa, ché altrimenti mi si aggrovigliano dentro. Sono piena di fogli, cartacei ed elettronici, riempiti di pensieri sparsi. Una specie di auto-analisi. Che credo mi abbia salvato dai veri analisti.
Tutto ha avuto inizio, ora ne sono certa, con lo studio della filosofia. Nel triennio finale del liceo scientifico, il mio rapporto con questa materia è passato dall'essere inizialmente pessimo, ai nove in pagella degli ultimi quadrimestri. Merito gran parte dell'insegnante che subentrò alla prima professoressa, che pretendeva di farci "filosofeggiare". Ragazzi di sedici anni, nel pieno del loro sbandamento adolescenziale, che provano a disquisire sui problemi della conoscenza, su questioni esistenziali e ontologiche. Non ci riuscivo. Ero in profondo disagio. Rileggevo gli appunti, cercavo appigli sul testo. Niente, non trovavo connessioni, non inquadravo il discorso. La professoressa - seria, algida, severa - cominciò a incutermi paura, mi metteva in soggezione. Le ore di filosofia erano per me un vero incubo. 
Poi, arrivò raggiante un nuovo professore, un Kevin Kline occhialuto e divertente. Lui aveva impostato un approccio alla materia completamente diverso. Ci insegnava in maniera semplice, né più né meno, il pensiero dei filosofi. La storia del pensiero filosofico. Lineare, approfondito ma testuale. Mi ricordo ancora il professor Rinaldi che mette in scena la sua buffa spiegazione dei concetti di "fenomeno" e "noumeno" in Kant. Per rappresentare il primo, si era messo a mimare un'espressione da "macho" con lo sguardo duro e intenso dell'uomo-che-non-deve-chiedere-mai. Mentre per indicarci il secondo, si atteggiava con un sorrisetto ammiccante e un fare effeminato, che suscitava risatine in tutta la classe. Seguivo le sue lezioni con reale interesse, e a tratti davvero divertita. Sapeva catturare la nostra attenzione, parlandoci nel modo più diretto e coinvolgente che avessi finora incontrato. 
Iniziò a incuriosirmi la filosofia, e l'interesse era incoraggiato dai buoni risultati raggiunti. Allora non è vero che non ci capivo niente! - mi dicevo. La fortuna di trovare gli insegnanti giusti può fare davvero la differenza. E così questa esperienza lasciò una traccia, in me. Un desiderio di conoscere più a fondo i pensieri, di andare alla radice delle cose, di porsi domande e interrogarsi sull'universo, sulle nostre esperienze, sull'esistenza, sulla natura e la cultura, sul nostro mondo interiore, sulle cose umane e divine. 
Conoscere sé stessi. 
E questo principio socratico del "Gnōthi seautón" - conosci te stesso - ha continuato a perseguitarmi, in senso buono, da allora fino ad oggi. Scopri quello che hai dentro, scopri il tuo "demone", il fuoco che arde in te, e inseguilo. Si chiama passione, si chiama talento, si chiama ciò che ti fa sentire vivo. La felicità sta lì. Se vuoi vivere intensamente la tua vita, la tua unica vita, guàrdati dentro
Ma quant'è difficile farlo sino in fondo. Quant'è difficile essere completamente onesti con sé stessi. Eppure è tutto lì, non c'è nient'altro che possa realizzare il senso della tua esistenza quanto questo semplice e assoluto imperativo. E allora voglio lasciare alle mie figlie un messaggio che ritengo estremamente importante per loro, come per ciascuno. Ascolta cosa hanno da insegnarti i filosofi, perché il segreto della vita sta nella domanda, nell'interrogarsi, nella curiosità verso il sapere, verso la conoscenza. E la cosa più preziosa da conoscere, sei tu. 
Io sono finita a trascorrere interi anni a tormentarmi interiormente. Ecco, forse ho esagerato nelle analisi smisuratamente autolesioniste - altrimenti dette "seghe mentali". E a causa di ciò, mi sono ritrovata ancora di più chiusa in me stessa. Posso dire, in un certo senso, di aver avuto anche io un periodo di mutismo selettivo. Anche se, beninteso, il mio non aveva nulla a che fare col blocco involontario causato dalla paura di parlare. Uscivo in compagnia, ma non partecipavo, se non con sorrisi a comando e risposte accennate. Ero "altrove". A volte penso di aver sprecato così un po' degli anni migliori della mia giovinezza. Altre volte, invece, penso che no, non li ho buttati, mi sono serviti. Ad essere quella che sono oggi, con la modesta presunzione di essere una persona migliore di quella che ero ieri. 
Quindi sono fermamente decisa ad impegnarmi nei confronti delle mie amate bambine, affinché possano avvicinarsi alla conoscenza di loro stesse, e aprire la mente. Con tutti gli strumenti che possono servire. La lettura, la scrittura, il dialogo, la condivisione. 
E spero studino la filosofia. 
Potremmo intanto iniziare da un bel festival.



martedì 6 settembre 2016

Nonostante il mutismo

"Mamma, mettiti lì! Tu fai il drago, e questo è il mio castello! AAAHHH! Aiuto arriva il drago!"
"Voglio andare su quello scivolo, mamma! Guardami come scivolo! UUUUIIIIII!"
"Che bello quel coniglietto! Ne vorrei prendere uno, mamma! Ma uffa, scappa sempre!"
E' pieno di bambini, di ragazzi e di adulti, al parco. Matilde parla, gioca, esclama, urla, si diverte. Come tutti. La sua voce squilla allegra e sbarazzina. E' lì, che io mi dico: ma guardala, com'è spensierata, e pensa se la potessero vedere e sentire le sue maestre, i nostri zii, le sue amiche e i suoi compagni a scuola, tutti gli altri! 
Tutti gli altri, al parco, al supermercato, o per strada, restano per lei uno sfondo neutro. Un'innocua scenografia. Ma non appena qualche sconosciuto o qualcuno che conosciamo le rivolge la parola, per salutarla, com'è normale, oppure quando si trova tra le mura scolastiche o quelle di una casa che non conosce, si ammutolisce. Diventa un'altra Matilde. Diversa da come la conosco io. E da come la conosciamo veramente in pochi, tra i parenti. Se non ci fossero innumerevoli video a testimoniare che invece no - e parla, e urla, e ride ed esclama - si farebbe fatica a crederlo. 
Mi accorgo a volte - anche adesso che ci sto lavorando, per capire come aiutarla - di essere ancora prigioniera di un mio pensiero sbagliato: il desiderio che prima o poi avvenga lo sblocco, le mie aspettative sul suo comportamento. Fuori non lo dico, evito di spronarla, non insisto, non le chiedo di dire cose. Sarebbe peggio, lo so bene, si bloccherebbe ancora di più. Faccio finta di niente. Ma dentro di me lo spero. E penso: dai, Matilde, coraggio. Che ti costa? Lo sai fare, sai parlare. Io lo so, faglielo vedere anche a loro. Almeno salutare. Un "ciao" anche a mezza voce, cosa vuoi che sia? Cosa vuoi che succeda? 
Niente.
Non succede niente.
E anche questo mio pensiero: non smuove niente, non cambia le cose. 
Tanto vale smettere di pensarlo.
Ed è proprio questo che devo fare. Rinunciare ad avere aspettative. Smettere di sperare. E' questo l'approccio giusto. Quello che la aiuta, che le crea intorno l'ambiente più rilassato e favorevole. Dove possa sentirsi sicura, protetta. E sperimentare la sua parola verso gli altri.
Del resto, un bambino con mutismo selettivo non sta sfidando nessuno, il suo non è un comportamento oppositivo. E' una reale difficoltà a parlare in quel contesto o con quella persona. Pertanto, spingerlo a parlare non lo aiuta a superare il suo blocco emotivo, la sua paura. Anzi, lo fa sentire ancor più sotto pressione, provoca un aumento dell'ansia per la prestazione richiesta, che lo fa chiudere ulteriormente nel suo mutismo. Anche tentare indirettamente di farlo parlare non funziona: se ne accorge, coglie la tua tensione. E quindi non serve a nulla.
Leggendo diverse cose sul mutismo selettivo, provando a informarmi, ad approfondire l'argomento, ho trovato approcci piuttosto differenti tra loro. Alcuni più freddi e scientifici, altri più "caldi" e immediati. 
In certi casi, mi sono spaventata. Qui si legge di mutismo selettivo come "inquadrato nell'ambito dei disturbi emotivi in bambini con personalità nevrotica, spesso con presenza di una situazione famigliare disturbata, in particolare nell'aspetto del rapporto madre-bambino". Oddio, sono una madre degenere? Sbaglio forse qualcosa? Sono disturbata? Di certo, però, anche io mi sento spesso inadeguata, mi auto-svaluto, e temo il giudizio altrui. Sono una campionessa, nel torneo dei tormenti interiori. Si parla poi di trattamento farmacologico, a cui sottoporre il bambino nei primi tempi, per innescare lo sblocco iniziale. Addirittura! Mi pare decisamente sproporzionato. La slide numero dodici, però, è molto interessante: una testimonianza diretta di chi ha vissuto anni d'infanzia accompagnati dal mutismo. Fa riflettere, e capire. Molto più delle descrizioni scientifiche.
In un altro blog, invece, ho trovato parole molto più costruttive, consigli pratici da mettere in atto nel quotidiano, da parte di chi ha un ruolo educativo, nei confronti del bambino. In particolare, un punto che a me pare davvero fondamentale, e che mi ha colpito in modo assoluto, perché spiegato con una parola chiave che secondo me dovrebbe essere scritta grande come una casa, per ricordarsela sempre. Lo riporto qui quasi integralmente.
"Accoglierlo per quello che è. Cercare di dimenticarsi del fatto che lui non parla. Il compito dell'insegnante [e potrei dire anche quello del genitore, ndr] non è quello di farlo parlare, [...] è quello di farlo sentire accolto NONOSTANTE non parli, di dargli la possibilità di apprendere e di dimostrare di aver appreso NONOSTANTE non possa farlo oralmente."
Ecco, questo mi ha illuminato. Il mio compito, in effetti, non è quello di farla parlare. Lo farà lei come e quando se la sentirà. Il mio compito è quello di accompagnarla in questo percorso di crescita, insegnarle tante cose, darle gli strumenti per essere indipendente e forte, e per costruirsi come persona. Il resto importa relativamente. 
La cosa difficile, per gli altri, è riuscire a interpretarla. Diventa emotivamente impegnativo per i suoi insegnanti e per chi le starà accanto capire quali sono i suoi bisogni, dal momento che il canale verbale è interrotto. In primis, i bisogni primari. Andare in bagno, avere un altro po' di pane. Immagino che doverlo chiedere alla maestra dev'essere per Matilde uno sforzo enorme. Spesso si mette a piangere. Il pianto esprime il suo disagio, la sua difficoltà. Anziché parole, escono lacrime. 
Chiudo con qualche frase significativa di un grande della filosofia e psicologia contemporanea, Umberto Galimberti, che stimo e apprezzo in modo profondo. Così scrive nella raccolta epistolare "Il segreto della domanda", al capitolo intitolato "La clinicizzazione del disagio scolastico":
"Perché i bambini non crescono come le piante, dove basta un seme caduto in un terreno adatto. I bambini crescono bene solo se si parla tanto con loro, non con una parola precettiva, 'fai questo' e 'non fare quest'altro', ma con una parola curiosa che si intrattiene con loro per scoprire il perché dei loro movimenti, delle loro ideazioni, delle congetture con cui i bambini creano lo schema del loro mondo, in cui noi siamo ospitati come compagni di viaggio alla scoperta del nuovo e non come spettatori allarmati che, a ogni scarto rispetto a comportamenti medi, vanno in cerca di un esperto clinico o, peggio ancora, di un rimedio farmacologico. La clinica non sarà mai in grado di sostituire la buona pratica umana."



domenica 4 settembre 2016

Una musica farò

Do-Re-Mi. Mi. Mi. 
Mi-Re-Do. Do. Do.
Do-Re-Mi. Mi. Mi. Re. Do.
Il maestro Flavio che accompagna i bambini con la chitarra. I genitori che fanno da spettatori curiosi e divertiti. I bambini schierati di fronte, impegnatissimi a suonare gli strumenti che loro stessi hanno costruito. Il piccolo concerto, improvvisato alla fine dei cinque incontri di laboratorio, è stato il modo più emozionante di salutarci prima dell'estate.
Avevo iscritto Matilde al laboratorio di musica, sull'onda dei suggerimenti della psicologa. Non mi aspettavo certo che iniziasse a parlare improvvisamente con tutti i bambini e gli educatori. Però ero assolutamente decisa a seguire il consiglio, anche perché l'idea, in fondo, piaceva anche a me. Io che non so suonare alcuno strumento, e tutt'al più so comporre "ad orecchio" sulla pianola Fra Martino o Bella Ciao. Mi entusiasmava. E avevo cercato di trasmettere questo entusiasmo a Matilde, nell'annunciarle la nuova avventura che avremmo intrapreso. Lei sembrava incuriosita. 
La prima lezione si rivelò un po' deludente, rispetto alle aspettative che mi ero fatta. Due ore, dieci bambini tra i tre e i sei anni, altrettante mamme o papà, un maestro di musica alto e forte come un gigante buono, Flavio, una educatrice giovane e frizzante, Eleonora, il suo collega più pacato e riservato, Raffaele, tutti stipati come sardine nella sala prove di due metri per due del polo culturale Officina. Il maestro Flavio, imbracciando la sua chitarra, ha guidato i bambini in un viaggio attraverso tutti gli strumenti e i vari generi di musica nel mondo e nella storia. Pur essendo una lezione quasi "frontale", lunga e nel finale stancante, è stato tutto sommato coinvolgente. Ogni bambino ha potuto sperimentare il suono di tutti gli strumenti, che passavano bramosamente di mano in mano. C'era persino il bastone della pioggia, l'ukulele, e una specie di scacciapensieri. 
Osservavo Matilde, in mezzo a quella bolgia di bambini rumorosi e scatenati. E notavo sia la sua voglia di partecipare, che sempre dimostra e ha dimostrato. Ma anche la sua - non so come chiamarla - difficoltà, diciamo. Spiccava il suo silenzio. Soprattutto quando il maestro le rivolgeva la parola, per coinvolgerla nell'interazione con il gruppo. Mi ero premurata - seguendo ancora una volta i consigli della dottoressa - di informare subito gli educatori del "problema" di Matilde. E così, dopo esserci presentati, li raggiunsi in disparte, in un momento di pausa, per comunicare loro che Matilde attualmente presentava un tipo di mutismo selettivo extra-famigliare. Eleonora e Raffaele in modo molto gentile mi rassicurarono, e in modo molto comprensivo mi assicurarono che avrebbero tenuto conto di questo aspetto nel relazionarsi con mia figlia, senza metterla a disagio con le richieste di verbalizzare le sue interazioni. 
Ma, ancor prima di poter creare le basi di un contesto il più sereno e inclusivo possibile per Matilde con le mie raccomandazioni agli educatori - di evitare di sottolineare il problema, di rispettare i suoi tempi -, la realtà senza filtri venne fuori dalla bocca di una bambina. Ilenia, un anno più grande, che già conoscevamo dalla frequentazione dell'asilo nido e del parco, lì, nel grande salone di Officina, ad Eleonora che ci stava accogliendo per la prima volta con il classico "Ciao, bellissima! Come ti chiami?", aveva risposto lei, con la sua voce squillante. Al posto di Matilde. E pure al posto mio. 
"Lei non parla. Parla solo coi suoi genitori!"
Grazie, Ilenia. 
Mentre mi infastidisco per l'intromissione non richiesta, provo il solito imbarazzo
Che dico? 
Mi giustifico con Eleonora? 
Mi rivolgo a Ilenia? 
E Matilde, lì, protagonista della scena, che cosa pensa? 
Sto zitta. Ma mi mordo la lingua. 
Vorrei dire: "E' vero, Ilenia non si sbaglia. E' proprio così. Parla con noi genitori e con gli altri no. E quindi? Che problema c'è?"
Ma pazienza. Ormai è andata. 
E soprattutto, capisco che sono ancora una volta io, per prima, a non accettare la difficoltà di mia figlia. E' quello, il primo problema che c'è.
La stessa scena si ripete poi anche col maestro Flavio, le prime volte che provava a interloquire con Matilde. Non avevo fatto in tempo ad avvertire anche lui, prima che iniziasse la sua lezione nella sala prove. Speravo che Eleonora e Raffaele facessero da tampone, da mediatori. Invece no. Pazienza.
A volte - mi dico - è anche bene, forse, scontrarsi un po' con la realtà. Perché mica tutti possono essere preventivamente informati, mica posso parare tutti i colpi. Quelli più grossi, sì, magari. Ma il resto del mondo, diciamo, quello è un po' troppo vasto.
Ad ogni modo, gli altri quattro incontri sono stati molto interessanti e divertenti, per i bimbi. Giochi, racconti, esperimenti, costruzione di strumenti con materiali di recupero. Maracas, con bottigliette di plastica riempite di conchiglie. Chitarre, con scatole da scarpe ed elastici. Trombe, con rotoli di cartone e palloncini sgonfi. Tamburi, con barattoli di latta decorati di immagini su carta. 
Dell'esperienza, spero sia rimasto a Matilde lo stimolo alla creatività, alla fantasia, e la voglia di emozionarsi e comunicare attraverso la musica. A me, è venuta voglia di imparare a suonare uno strumento. Chissà se mai lo farò. 
Con le ma-ni-ni.
Con le ma-ni-ni. 
U-na mu-si-ca fa-rò.







sabato 3 settembre 2016

Terapia sì, terapia no

Maga Magò - penso. E' un incrocio tra Maga Magò e la mia vecchia maestra della materna. 
Siamo nell'ambulatorio della neuropsichiatra infantile che seguirà Matilde in un percorso terapeutico. Terapeutico? Diciamo così, per ora. Il "donnone", che io e il mio compagno abbiamo davanti, è una signora di tutto rispetto, ma dall'aspetto - come dicevo - un po' inquietante. Mette in soggezione, quasi. E inevitabilmente penso: quando Matilde la vedrà, vorrà scappare via! Altro che mettersi a parlare con lei. Invece, andò tutto sommato bene.
Il primo incontro è stato a maggio, solo coi genitori. Due ore a descriverle "il caso". All'inizio non mi piaceva affatto il suo tono quasi inquisitorio. Indagini minuziose per ricostruire le misurazioni di peso, altezza e circonferenza cranica durante la crescita.
"La testa è piuttosto piccola. C'è qualcuno che ha il cranio piccolo in famiglia?".
"Sì, dottoressa. Lei". Il mio compagno, indicando me. "Pensi che, per comprarle il casco da moto, ho dovuto prendere taglia xxs da bambino!"
"Ah, ma quindi le è stata diagnosticata una microencefalia?"
"Ma no, dottoressa. Non lo ascolti. Non mi è mai stata diagnosticata una microencefalia. Lo posso giurare." 
Vergogna, e lancio di sguardi minacciosi al mio compagno.
In fondo, capisco che debba delineare un quadro esaustivo ed escludere eventuali altre patologie. La seconda parte della conversazione verte sui comportamenti di Matilde. Nostre osservazioni, sua spiegazione del disturbo. Parlandone, anche la neuropsichiatra ipotizza le cause dell'insorgenza del mutismo nella vita scolastica durante il nido d'infanzia, rinforzando un mio sospetto - come ne racconto qui. Poi, distruggendo in un attimo le nostre flebili speranze nel potere della scienza, ci spiega che non esiste una vera e propria terapia da mettere in atto. Quando verrà il momento di "sbloccarsi" e cominciare a parlare nelle situazioni che le provocano ansia, sarà lei stessa a deciderlo. O meglio, a sentirsela. Infine, mette la definitiva pietra sopra a tutte le nostre ingenue illusioni, avvertendoci che il mutismo selettivo è un comportamento che tende a radicalizzarsi, e che quindi diventa nel tempo più difficile da risolvere. 
Se prima ero da un lato dubbiosa ma dall'altro lato speranzosa nell'aiuto psicologico, adesso da questo colloquio esco decisamente scettica a riguardo. Del resto, anche la maestra della materna, che conosce Matilde già da due anni, mi ha espresso le sue perplessità nel coinvolgerla in un percorso terapeutico. 
"Ma sì, Matilde è ancora piccola, quando crescerà vedrai che supererà la cosa spontaneamente! Non c'è bisogno di sottoporla alla psicologa. E poi ogni tanto qualche bambino viene a dirmi: maestra, ho sentito Matilde parlare con le sue amichette! Non preoccuparti, è una bambina gioiosa, che partecipa con entusiasmo a tutte le attività della scuola, è amata e cercata dai suoi amici. Se non parla con noi, adesso, lo farà quando se la sentirà." 
E così arriva l'estate, si avvicinano le due date di incontri fissati dalla neuropsichiatra infantile per vedere Matilde. Alla fine, abbiamo deciso di provare. Tutt'al più - ci siamo detti io e il mio compagno - non cambierà nulla! Di certo, non avevamo come aspettativa che si mettesse a parlare con la dottoressa. L'indicazione era quella di comunicare a Matilde che saremmo andati da una signora a fare dei nuovi giochi. E dunque, in un caldo pomeriggio della desertissima settimana di ferragosto, andiamo in ospedale, dove c'è l'ambulatorio di Maga Magò. Sperando che nostra figlia non si accorga che il corridoio assomiglia a quello dell'ospedale. 
La dottoressa ci accoglie in modo molto professionale. Per tutta l'ora dell'incontro, resta in atteggiamento correttamente neutro: nè troppo amichevole, nè troppo distaccata. Come da istruzioni, abbiamo portato qualche disegno significativo e le "pagelle" scolastiche, ovvero le brevi relazioni scritte dalla maestra in occasione dei colloqui annuali. Dopo aver preso in visione i nostri materiali, tocca a Matilde. E' seduta di fronte a Maga Magò, sulla scrivania c'è un grosso librone di illustrazioni, un blister di figurine inscatolate come diapositive, e tre sacchetti di forme geometriche colorate. Io sono seduta accanto a lei, ma mi viene raccomandato di stare d'ora in poi in assoluto silenzio, senza suggerire in alcun modo. Iniziano i test di Leiter-R, come leggo sulla scatola di figurine. Osservo Matilde impegnatissima a posizionare nel riquadro giusto le figurine che la dottoressa le porge. Ad ogni esercizio, viene assegnato un punteggio, che la Magò annota sulla sua scheda. Alla fine di ogni batteria di esercizi, somma i punteggi e li comunica a Matilde.
"Matilde, vuoi sapere quanti punti hai fatto?"
Annuisce.
"Tredici punti. Ti va bene tredici?"
Altro segno di assenso.
"Vuoi dire alla mamma che hai fatto tredici punti?"
Si avvicina al mio orecchio. Chiude le manine intorno alla sua bocca con dentro il mio orecchio. Mi sussurra, con voce impercettibile: tredici.
"Brava, Matilde!" dico io.
Lei sorride. E ricomincia ad eseguire le consegne di Maga Magò.
Anche il secondo incontro, a distanza di sette giorni dal primo, si svolge allo stesso modo. Chiedo a Matilde cosa ne pensa. Bilancio positivo. Le è piaciuto. Anche se la seconda volta era visibilmente più svogliata e stanca. La capisco. Alcuni esercizi di logica, che provavo a risolvere mentalmente mentre ero lì alla scrivania con loro, erano talmente complicati che nemmeno io riuscivo a capirli! 
La dottoressa ci congeda dicendo che ci farà avere a casa la relazione con l'esito dei punteggi totalizzati nei test, che comunque ha già visto essere piuttosto alti. La bambina è molto intelligente - grazie, lo sapevo già, anche senza queste verifiche - e quindi non ci sono interventi ambulatoriali da programmare. Ci comunicherà anche il prossimo appuntamento, che verrà fissato a distanza di sei-otto mesi. L'obiettivo è soltanto quello di monitorare il disturbo, che ha confermato essere mutismo selettivo - grazie, già lo conoscevamo, il nostro compagno di avventure. 
Attendiamo, dunque, di rivedere Maga Magò. Niente bacchetta magica, niente stregonerie. Nel frattempo, solo qualche escamotage, e qualche suggerimento. Quello che può aiutare - ci diceva la dottoressa - è coinvolgerla, nelle attività extrascolastiche, in situazioni di gruppo, ma senza che l'espressione verbale sia richiesta. Come ad esempio, farle frequentare un corso di danza, o comunque di movimento corporeo. Oppure la musica. Aiuta molto, la musica. Suggerimenti che anche la psicologa della materna, durante le sue puntuali osservazioni annuali in classe, ci aveva già dato. Per aiutare a favorire il suo inserimento in contesti sociali, senza però metterla di fronte all'ansia di doversi esprimere con le parole. E presto racconterò della nostra esperienza al laboratorio estivo di musica.
Per saperne di più sui percorsi di supporto psicologico per bambini e ragazzi con mutismo selettivo, l'Associazione può fornire un primo aiuto nella ricerca di specialisti che se ne occupano in modo approfondito.











venerdì 2 settembre 2016

Dentro il nido

"Matilde, ecco il tuo asilo vecchio! Te lo ricordi?"
"Sì! La scuola di quando ero piccola!"
"Proprio quella. La maestra Cinzia, la maestra Patty, la tata Mary. Ti piaceva andare in quell'asilo?"
"Sì! Ci voglio ritornare!"
"Va bene, allora un giorno passeremo a salutare di nuovo le tue vecchie maestre. Saranno molto contente di rivederti!"
Ogni volta che passiamo con l'auto davanti all' asilo nido dove ha trascorso i suoi primi due anni scolastici, mia figlia esclama sempre in modo felice e nostalgico, appena lo vede. Ne ha un bel ricordo, da quel che dice. E anche noi come genitori ci siamo trovati molto bene. Un ambiente davvero sereno, persone disponibili e gentili. Eppure mi sono più volte chiesta se non sia cominciato tutto da lì. La storia del mutismo selettivo, intendo.
Sì, perché è stato durante la frequentazione del nido d'infanzia, soprattutto nel secondo anno, che Matilde ha cominciato a mostrare una certa "timidezza". Che non era - e non è - timidezza. Le maestre, durante i colloqui, ci chiedevano se a casa dicesse qualche parola.
"Certo, parla eccome con noi!"
"Davvero? Noi invece non la sentiamo mai, la sua voce. Fa sì e no con la testa, si fa capire in altri modi, quello sì. Ma con noi non parla mai."
All'inizio l'inserimento è stato lungo ma tranquillo. Non mi cercava, non ha mai pianto per il "senso d'abbandono", al mattino andava sempre volentieri. Certo, era tra i più piccoli, e in più ancora non camminava, si spostava gattonando. Lì, nel grande salone centrale, invece, c'era la giocosa confusione e il gran rincorrersi di bambini di quell'età. Istintivi, curiosi, sfrenati. Lo sguardo di Matilde, me lo ricordo bene, sembrava molto guardingo, diffidente, come se dicesse: ma che succede adesso, che fanno quei bimbi, dove vado io? Certo, parliamo di un caratterino particolare, il suo. Molto prudente, ha i suoi tempi per affrontare le cose - e lo ha dimostrato in diversi episodi, primo su tutti l'inizio della deambulazione autonoma a diciotto mesi - prima studia le situazioni e poi, solo quando si sente sicura e pronta, si lancia. E' affettuosa, dolce, generosa. Attenta, curiosa, gioiosa. Ma anche testarda, ostinata, decisa. Si arrabbia se non riesce a fare una cosa come vuole lei, è di una precisione estrema e pretende molto da se stessa. Del resto, è del segno della Vergine. 
A volte, avrei voluto diventare - ma anche adesso ogni tanto lo vorrei essere - una mosca. Per ronzare insospettabilmente nell'aula e vedere cosa fa. Lo so, non è bello, e nemmeno a me piacerebbe essere spiata a mia insaputa. Ma la curiosità di conoscere i suoi comportamenti in ambienti al di fuori di quello famigliare è troppo forte. Mi sono così fatta l'idea, ripensandoci "a freddo" dopo qualche tempo, che l'esperienza del nido possa esser stata in un certo modo "traumatica". O meglio, che possa aver innescato in lei una sorta di meccanismo di difesa. Si sa, la vita scolastica, fin dall'asilo nido, ha altri ritmi e altre caratteristiche rispetto a quella famigliare, l'unica conosciuta da un bimbo fino a quel momento. A casa, ci sono le abitudini e le routine famigliari. A scuola, ci sono altre regole. A casa, la mamma ti accudisce ventiquattrore su ventiquattro. A scuola, la maestra deve dividere le sue attenzioni a più bambini. E forse, l'esperienza di sentirsi per così dire smarrita in quell'ambiente, ripetuta quotidianamente, potrebbe aver rinforzato un comportamento di difesa, del genere: me ne sto zitta e buona, così non mi succederà niente - ad esempio, non mi riprenderanno, non verrò urtata dai compagni più vivaci, non mi giudicheranno. 
C'è un dettaglio molto indicativo e buffo, se vogliamo, che le maestre mi avevano riferito negli ultimi mesi di asilo nido: il momento in cui sentivano Matilde parlare, l'unico momento, era quello della  nanna dopo il pranzo. Proprio il momento in cui tutti dovevano far silenzio! E così le maestre erano costrette a zittirla. Paradossale! Immagino il suo pensiero: ecco, ora che tutti finalmente tacciono, posso parlare io!
Quelli che parlano di mutismo selettivo dicono che non c'è in realtà un vero motivo. Eppure io, da mamma, tra le mille altre domande che mi sono inevitabilmente posta, me lo son spesso chiesta: è colpa mia? Ho fatto male a mandarla al nido? Ecco, dovevo tenerla a casa con me, accidenti. Lo sapevo. Ma non serve tormentarsi. Serve capire. O meglio, com-prendere. Prendere assieme.  




giovedì 1 settembre 2016

Un libro chiave

Anzi, ispiratore. Perché mi ha decisamente ispirata per il progetto di questo diario online.
Innanzitutto, Ti hanno mangiato la lingua? è un titolo molto indovinato. Questa è esattamente la frase che si sente rivolgere al proprio figlio o figlia ogni mamma che ha a che fare col mutismo selettivo di lui o lei. Un "estraneo" che pone una domanda gentile: "Come ti chiami, bella bambina?". Un silenzio. Un'altra domanda curiosa: "Quanti anni hai, piccola?". Un altro silenzio. "Ti hanno mangiato la lingua?".
Tu, genitore, che fai? Rispondi per lei. Ma intanto ti sale dentro un senso di inadeguatezza, disagio, quasi vergogna. Ansia, appunto. Proprio quella che percepisce tua figlia, e che quando aumenta e aumenta, le blocca le parole in gola. Ogni semplice banale conversazione diventa un insostenibile ansiogeno interrogatorio. E tu, genitore, ti chiedi intanto cosa pensino di lei, di tua figlia. Che timida! Ma capisce? Se non addirittura. Che maleducata!
Invece tu, genitore, lo sai che non è né timida, né stupida, né maleducata. Che lei, tua figlia, a casa, ti stordisce di parole. Esclama, urla, canta, racconta. Insomma, parla. Ma vaglielo a spiegare, agli altri. A quelli che non lo sanno, che non lo possono sapere. Lì per lì, che gli vai a dire? Rispondi e basta. Non c'è tempo per sorbirsi tutta una spiegazione. "Guardi, deve sapere che mia figlia ha un disturbo transitorio d'ansia, chiamato col nome di mutismo selettivo. E' un blocco emotivo, non riesce a parlare nei contesti sociali per paura. Non c'è un vero e proprio motivo. Mentre a casa coi famigliari si esprime perfettamente e spensieratamente come ogni altro bambino, nelle situazioni sociali, come ad esempio la scuola, succede che non si esprima più. Non è un comportamento oppositivo, non è una sfida. Lei vorrebbe, ma non riesce." Ecco, più o meno così. Trenta secondi. Chi avrebbe trenta secondi per ascoltare tutta la storia?
Proprio per questo, mi auguro che ognuno legga un libro come quello di Daniela Conti, scritto insieme a sua figlia Marina. Mi sono ritrovata in molte delle situazioni da loro vissute. Hanno dato forma ed espressione a quel grumo confuso di emozioni e di domande interiori, che ti accompagnano inevitabilmente nel lungo percorso verso la parola. E che a volte ti angosciano, altre volte ti sorprendono. 
Parlo - e la prospettiva è la stessa nel libro - di come la vive una mamma, che vede la difficoltà della figlia e vorrebbe cancellare ogni ostacolo per lei, com'è naturale che si voglia. Ma più ti aspetti che lei parli, più ti mostri desiderosa che avvenga, e più ottieni l'effetto contrario. Attraverso le parole del libro si scopre che la strada che funziona passa dall' accettazione, dall' accoglienza. Tenersi per mano. Madre e figlia. Con complicità. Gesti di intesa. 
E poi, si spera sempre di trovare, nella scuola, insegnanti ed educatori sensibili e intelligenti. Che sappiano valutare l'impegno individuale con la giusta misura, tenendo conto dello sforzo fatto da ogni singolo alunno per superare la propria difficoltà. Tenendo conto, insomma, dell'unicità e diversità di ogni bambino, senza omologare tutti verso un sistema di giudizio standardizzato. 
Ecco perché leggere un libro come questo. Per fare più attenzione, a giudicare. Fare più attenzione, e ascoltare.