"Voglio andare su quello scivolo, mamma! Guardami come scivolo! UUUUIIIIII!"
"Che bello quel coniglietto! Ne vorrei prendere uno, mamma! Ma uffa, scappa sempre!"
E' pieno di bambini, di ragazzi e di adulti, al parco. Matilde parla, gioca, esclama, urla, si diverte. Come tutti. La sua voce squilla allegra e sbarazzina. E' lì, che io mi dico: ma guardala, com'è spensierata, e pensa se la potessero vedere e sentire le sue maestre, i nostri zii, le sue amiche e i suoi compagni a scuola, tutti gli altri!
Tutti gli altri, al parco, al supermercato, o per strada, restano per lei uno sfondo neutro. Un'innocua scenografia. Ma non appena qualche sconosciuto o qualcuno che conosciamo le rivolge la parola, per salutarla, com'è normale, oppure quando si trova tra le mura scolastiche o quelle di una casa che non conosce, si ammutolisce. Diventa un'altra Matilde. Diversa da come la conosco io. E da come la conosciamo veramente in pochi, tra i parenti. Se non ci fossero innumerevoli video a testimoniare che invece no - e parla, e urla, e ride ed esclama - si farebbe fatica a crederlo.
Mi accorgo a volte - anche adesso che ci sto lavorando, per capire come aiutarla - di essere ancora prigioniera di un mio pensiero sbagliato: il desiderio che prima o poi avvenga lo sblocco, le mie aspettative sul suo comportamento. Fuori non lo dico, evito di spronarla, non insisto, non le chiedo di dire cose. Sarebbe peggio, lo so bene, si bloccherebbe ancora di più. Faccio finta di niente. Ma dentro di me lo spero. E penso: dai, Matilde, coraggio. Che ti costa? Lo sai fare, sai parlare. Io lo so, faglielo vedere anche a loro. Almeno salutare. Un "ciao" anche a mezza voce, cosa vuoi che sia? Cosa vuoi che succeda?
Niente.
Non succede niente.
E anche questo mio pensiero: non smuove niente, non cambia le cose.
Tanto vale smettere di pensarlo.
Ed è proprio questo che devo fare. Rinunciare ad avere aspettative. Smettere di sperare. E' questo l'approccio giusto. Quello che la aiuta, che le crea intorno l'ambiente più rilassato e favorevole. Dove possa sentirsi sicura, protetta. E sperimentare la sua parola verso gli altri.
Del resto, un bambino con mutismo selettivo non sta sfidando nessuno, il suo non è un comportamento oppositivo. E' una reale difficoltà a parlare in quel contesto o con quella persona. Pertanto, spingerlo a parlare non lo aiuta a superare il suo blocco emotivo, la sua paura. Anzi, lo fa sentire ancor più sotto pressione, provoca un aumento dell'ansia per la prestazione richiesta, che lo fa chiudere ulteriormente nel suo mutismo. Anche tentare indirettamente di farlo parlare non funziona: se ne accorge, coglie la tua tensione. E quindi non serve a nulla.
Leggendo diverse cose sul mutismo selettivo, provando a informarmi, ad approfondire l'argomento, ho trovato approcci piuttosto differenti tra loro. Alcuni più freddi e scientifici, altri più "caldi" e immediati.
In certi casi, mi sono spaventata. Qui si legge di mutismo selettivo come "inquadrato nell'ambito dei disturbi emotivi in bambini con personalità nevrotica, spesso con presenza di una situazione famigliare disturbata, in particolare nell'aspetto del rapporto madre-bambino". Oddio, sono una madre degenere? Sbaglio forse qualcosa? Sono disturbata? Di certo, però, anche io mi sento spesso inadeguata, mi auto-svaluto, e temo il giudizio altrui. Sono una campionessa, nel torneo dei tormenti interiori. Si parla poi di trattamento farmacologico, a cui sottoporre il bambino nei primi tempi, per innescare lo sblocco iniziale. Addirittura! Mi pare decisamente sproporzionato. La slide numero dodici, però, è molto interessante: una testimonianza diretta di chi ha vissuto anni d'infanzia accompagnati dal mutismo. Fa riflettere, e capire. Molto più delle descrizioni scientifiche.
In un altro blog, invece, ho trovato parole molto più costruttive, consigli pratici da mettere in atto nel quotidiano, da parte di chi ha un ruolo educativo, nei confronti del bambino. In particolare, un punto che a me pare davvero fondamentale, e che mi ha colpito in modo assoluto, perché spiegato con una parola chiave che secondo me dovrebbe essere scritta grande come una casa, per ricordarsela sempre. Lo riporto qui quasi integralmente.
"Accoglierlo per quello che è. Cercare di dimenticarsi del fatto che lui non parla. Il compito dell'insegnante [e potrei dire anche quello del genitore, ndr] non è quello di farlo parlare, [...] è quello di farlo sentire accolto NONOSTANTE non parli, di dargli la possibilità di apprendere e di dimostrare di aver appreso NONOSTANTE non possa farlo oralmente."
Ecco, questo mi ha illuminato. Il mio compito, in effetti, non è quello di farla parlare. Lo farà lei come e quando se la sentirà. Il mio compito è quello di accompagnarla in questo percorso di crescita, insegnarle tante cose, darle gli strumenti per essere indipendente e forte, e per costruirsi come persona. Il resto importa relativamente.
La cosa difficile, per gli altri, è riuscire a interpretarla. Diventa emotivamente impegnativo per i suoi insegnanti e per chi le starà accanto capire quali sono i suoi bisogni, dal momento che il canale verbale è interrotto. In primis, i bisogni primari. Andare in bagno, avere un altro po' di pane. Immagino che doverlo chiedere alla maestra dev'essere per Matilde uno sforzo enorme. Spesso si mette a piangere. Il pianto esprime il suo disagio, la sua difficoltà. Anziché parole, escono lacrime.
Chiudo con qualche frase significativa di un grande della filosofia e psicologia contemporanea, Umberto Galimberti, che stimo e apprezzo in modo profondo. Così scrive nella raccolta epistolare "Il segreto della domanda", al capitolo intitolato "La clinicizzazione del disagio scolastico":
"Perché i bambini non crescono come le piante, dove basta un seme caduto in un terreno adatto. I bambini crescono bene solo se si parla tanto con loro, non con una parola precettiva, 'fai questo' e 'non fare quest'altro', ma con una parola curiosa che si intrattiene con loro per scoprire il perché dei loro movimenti, delle loro ideazioni, delle congetture con cui i bambini creano lo schema del loro mondo, in cui noi siamo ospitati come compagni di viaggio alla scoperta del nuovo e non come spettatori allarmati che, a ogni scarto rispetto a comportamenti medi, vanno in cerca di un esperto clinico o, peggio ancora, di un rimedio farmacologico. La clinica non sarà mai in grado di sostituire la buona pratica umana."
"Accoglierlo per quello che è. Cercare di dimenticarsi del fatto che lui non parla. Il compito dell'insegnante [e potrei dire anche quello del genitore, ndr] non è quello di farlo parlare, [...] è quello di farlo sentire accolto NONOSTANTE non parli, di dargli la possibilità di apprendere e di dimostrare di aver appreso NONOSTANTE non possa farlo oralmente."
Ecco, questo mi ha illuminato. Il mio compito, in effetti, non è quello di farla parlare. Lo farà lei come e quando se la sentirà. Il mio compito è quello di accompagnarla in questo percorso di crescita, insegnarle tante cose, darle gli strumenti per essere indipendente e forte, e per costruirsi come persona. Il resto importa relativamente.
La cosa difficile, per gli altri, è riuscire a interpretarla. Diventa emotivamente impegnativo per i suoi insegnanti e per chi le starà accanto capire quali sono i suoi bisogni, dal momento che il canale verbale è interrotto. In primis, i bisogni primari. Andare in bagno, avere un altro po' di pane. Immagino che doverlo chiedere alla maestra dev'essere per Matilde uno sforzo enorme. Spesso si mette a piangere. Il pianto esprime il suo disagio, la sua difficoltà. Anziché parole, escono lacrime.
Chiudo con qualche frase significativa di un grande della filosofia e psicologia contemporanea, Umberto Galimberti, che stimo e apprezzo in modo profondo. Così scrive nella raccolta epistolare "Il segreto della domanda", al capitolo intitolato "La clinicizzazione del disagio scolastico":
"Perché i bambini non crescono come le piante, dove basta un seme caduto in un terreno adatto. I bambini crescono bene solo se si parla tanto con loro, non con una parola precettiva, 'fai questo' e 'non fare quest'altro', ma con una parola curiosa che si intrattiene con loro per scoprire il perché dei loro movimenti, delle loro ideazioni, delle congetture con cui i bambini creano lo schema del loro mondo, in cui noi siamo ospitati come compagni di viaggio alla scoperta del nuovo e non come spettatori allarmati che, a ogni scarto rispetto a comportamenti medi, vanno in cerca di un esperto clinico o, peggio ancora, di un rimedio farmacologico. La clinica non sarà mai in grado di sostituire la buona pratica umana."
Certe volte non capisco se il vero problema sia quello del bambino o se sia la società "normale" a farlo diventare tale... le differenze sono negli occhi di chi guarda... ognuno ha i propri disagi e i propri modi di manifestarli ma se si esce dai canoni si ha il dito puntato contro. Forza Chiara, sarà dura per lei è per te, perché la comprensione altrui sembra passi sempre dall'omologazione, ma quello che imparerete insieme sarà più prezioso di qualsiasi traguardo raggiunto per apparenza
RispondiEliminaGrazie mille per queste parole! E' vero, un problema che per te non esiste diventa tale non appena sono gli altri a fartelo notare. La tua identità si costruisce anche attraverso il riconoscimento sociale, l'apprezzamento o la disapprovazione, e questo non può che incidere sulla costruzione della tua persona, sulla tua autostima. Come uno specchio che riflette la tua immagine, sono gli altri a dirti chi sei. In primis i genitori, poi via via gli altri "attori" con cui ci si relaziona nei vari ambienti sociali. Certo, da un lato è rassicurante sentirsi omologati, come tutti gli altri, ma dall'altro è anche sano riconoscere e apprezzare l'unicità di ciascuno della propria diversità. E accettarla, accoglierla. Questa nostra società è completamente centrata sulla parola, e parlare è quello che ci si aspetta da tutti. Ma le strade della comunicazione sono molteplici e si possono trovare canali diversi a cui noi non siamo abituati per entrare in relazione con l'altro. Penso davvero che il percorso sia ricco di insegnamenti, se li si vogliono cogliere, sia per chi la vive in prima persona sia per le persone che le stanno accanto in questo cammino. Grazie ancora.
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