venerdì 28 ottobre 2016

Il percorso verso la voce

In modo millimetrico, avanziamo.
Avanza. 
Sì, perché io, anzi noi, siamo con lei. Ma è lei a metterci del suo. 
La sua forza, la sua volontà, le sue risorse.
Per trovare quella che è la sua modalità.
Attenzione, però: maneggiare con cura
Perché è come un animaletto, uno di quelli che le piacciono così tanto.
Una lumaca, una tartaruga, un riccio. 
Sempre per restare in tema slow, appunto.
Un animaletto che spunta fuori soltanto quando non avverte minacce intorno a sé. Ma che, non appena le sue antenne sempre all'erta captano anche un minimo pericolo, è subito pronto a scattare in ritirata. 
Pluff
Dentro la corazza, di nuovo al sicuro.
Ecco.
Il percorso verso la voce - o meglio, verso la sua voce davanti agli altri, davanti all'altro - è fatto di movimenti lenti, di tappe non dette, di traguardi impercettibili.
E a volte di passi indietro. Come nel ballo del pinguino.
Sempre per restare in tema di animali, appunto.
Avanti. Indietro.
Avanti, avanti, avanti.
E poi di nuovo daccapo.
Ma ogni passo avanti è una conquista, e ogni conquista comporta una fatica.

Una di queste ultime "fatiche" di Matilde è stato iniziare a spostare la sua bocca - quando vuole dirmi le cose in presenza di persone con le quali non parla - dal mio orecchio al mio naso.
Mi fa troppo solletico nell'orecchio! - le ho detto.
Eravamo una sera a casa dai nonni, che sono poi i miei genitori, in compagnia degli zii. Matilde ovviamente era entrata subito in modalità silenziosa appena loro erano entrati in casa. 
Non proprio silenziosa, bisogna precisarlo. Perché lei comunque continua a fare i suoi giochi allegri, a fare la "matta", a ridere, fare boccacce, mugolare, ridere ancora più forte, sbuffare, ringhiare, lanciare i suoi urletti. Il silenzio completo è abbastanza raro. Forse a scuola, ecco. Forse lì sorride, usa i gesti, le espressioni. Qualche suono. Non lo so, questo. Devo indagare in merito.
Dunque dicevamo: a un certo punto, mentre siamo lì in salotto a parlare di mal di schiena, di ginnastica, di pilates, di esercizi difficili - e mia zia prova sul tappeto a mostrarceli tutti - Matilde mi prende per mano e mi trascina nell'altra stanza. 
Lì, finalmente sole, mi dice, sempre a bassa voce, appiccicata al mio naso: "Mamma, chiamali tutti in camera da letto!"
Allora ci provo. Ti metto alla prova, piccola mia: "Se vuoi invitarli di là, chiediglielo tu!"
Sbuffa, ringhia, si infastidisce. Sa che può farlo, ma che non riesce. 
Io non voglio insistere, ma nemmeno cedere. 
Contrattiamo.
"Senti Matilde, facciamo così: tu puoi dire la parola mamma, una sola parola, e poi io dico la frase per invitarli. Va bene?"
Affare fatto.
Torniamo in salotto: mi siedo, mi salta in braccio, preme il suo naso al mio, afferra i miei capelli e li sistema ai lati delle nostre guance, a mo' di tendina. E in questa stramba posizione, per cercare di stare il più possibile nascosta, sussurra pianissimo "mamma".
Io allora li invito, e così andiamo tutti in camera ad applaudire Matilde felice, che si esibisce per noi in mille capriole sul lettone. 
Immagino quanto le sia costato, quel sussurro. Quanto le sia costata, quella negoziazione. Ogni volta deve lottare con l'animaletto che le imprigiona le parole nella gola.
Lo sa che può, che sa farlo, che sa parlare. E lo sa che noi lo sappiamo. Ma non ci riesce. E' più forte di lei. E' più grande di lei.
E allora, ogni volta che qualcuno insiste nel dirle "ma io so che sai parlare, io ho sentito la tua voce", ecco, ogni volta io immagino che Matilde pensi: certo, certo che so parlare, vorrei farlo, ma non ci riesco, quindi non ripetermelo, non farmelo ricordare, anzi fammelo proprio scordare, così io mi rilasso e nel gioco spensierato mi lascerò andare.

Comunque, Matilde è davvero brava nelle capriole.
Mi sono sentita orgogliosa, quando una delle sue due insegnanti di gioco-danza mi ha inaspettatamente detto: "Sai, Matilde è molto migliorata. Si fa coinvolgere molto di più, si impegna tanto, è davvero brava".
E io subito a puntualizzare: "Mi fa piacere! Però ha questo blocco, che la fa sentire agitata nel parlare, anche a scuola con la maestra che ormai conosce da anni..."
"Sì, ma non preoccuparti, perché è molto migliorata, vedo che fa proprio tutto".
Evvai, grande Matilde! Certo, non mi aspetto che parli alle lezioni di danza, o a quelle di musica - dove anche qui la disponibilissima insegnante è al corrente della sua difficoltà e dà ogni volta una valutazione molto positiva su di lei - ma che faccia un'attività che le piace, stando comunque in mezzo agli altri, in un ambiente sereno e rilassato.

Il percorso verso la voce passa anche da prove e tentativi.
Forse, anzi sicuramente, anche da sbagli ed errori.
Ma soprattutto da idee.
E così - grazie fondamentalmente all'estrema disponibilità della nostra carissima insegnante dell'asilo - ho proposto a Matilde di registrare un messaggio vocale per lei, per la sua maestra. 
Santa tecnologia! Il metodo dei messaggi vocali di whatsapp lo avevamo già utilizzato per comunicare con le sue amichette del cuore. A Matilde piace molto. E anche nel registrare frasi per la maestra era molto contenta. Davvero entusiasta. Tanto che ci aveva preso gusto e, dopo ogni messaggio, ne voleva fare subito un altro, e poi un altro ancora.
La voglia di comunicare ce l'ha. Si sente, si vede.
Cosa succede allora a scuola? Perché, invece di scoppiare a piangere quando vuole qualcosa che non riesce a esprimere, non tira fuori le sue risorse, il suo coraggio, e prova a dire cosa c'è? 
"Ma io a scuola non ho la voce".
Questo mi ha detto lei. Così mi ha risposto.
"Ma come, Mati? E dov'è finita la tua voce?"
"Ehm... nella mia buchetta!"
"Allora dobbiamo ricordarci di prenderla!"
Ecco.
Prossima tappa: tirare fuori la voce. Dalla buchetta.



giovedì 20 ottobre 2016

I piedi in acqua

Gradualità.
Avvicinarsi all'acqua. Sentire con l'alluce. 
Mettere un piede dentro. Poi anche l'altro.
Scendere al ginocchio. E avanti così, fino a provare a galleggiare.
Le paure, per superarle, bisogna affrontarle.
Piano piano.
Poco poco.
Se hai paura dell'acqua, cominci a prendere confidenza. Magari giocando un po', magari scivolando anche, magari divertendosi a schizzare l'acqua.
E solo dopo, quando ti sentirai pronto, ti tufferai.
Se hai paura di parlare, comincerai a fare piccoli passi, per imparare a superarla. 
Ho pure intitolato così questo blog! 
Il concetto chiave è proprio quello.
Andare per gradi.
Se Matilde adesso mi sussurra nell'orecchio, quando vuole comunicare con me in presenza di altri con i quali si sente a disagio, posso provare ad aumentare la distanza tra la sua bocca e il mio orecchio. Magari con una scusa: la mamma non riesce a chinarsi, oggi, ha mal di schiena. Oppure: sto finendo di pulire i piatti, adesso, dimmelo pure lo stesso. 
Posso anche provare a darle un piccolo input, per spronarla a far uscire le parole. Ad esempio, quando una delle sue amichette è ospite da noi, chiederle molto naturalmente: Matilde, chiama la tua amica che adesso vi faccio la merenda!
Ecco, di questo sento di avere più bisogno ora. 
Consigli, strategie, escamotage, trucchi. 
Chiamali come vuoi. 
Voglio un libretto di istruzioni.
In questi giorni sto - stiamo, io e il mio compagno - facendo un vero e proprio tour, tra gli specialisti della zona, per cercare quello a cui poterci affidare. La neuropsichiatria infantile, infatti, ti dà una diagnosi, ma non fa terapia. Non prende in carico. 
E così, a colloquio ormai con diversi professionisti, capisci molte cose. 
Capisci innanzitutto che ognuno ha il suo metodo, per cui il vecchio detto di "sentire prima più campane" è in questo caso molto conveniente. 
C'è quello che propone un lavoro intensivo in studio, solo con la bambina, per otto sedute a cadenza settimanale; chi preferisce iniziare gli incontri soltanto coi genitori, per studiare insieme quel programma di strategie da attuare; chi lavora su più fronti, coinvolgendo, oltre al bambino e ai genitori, anche gli insegnanti; chi, infine, ritiene di poter aspettare, nei casi meno gravi, prima di intervenire con una terapia diretta, e intanto provare a offrire quelle occasioni di stimolo per conoscere ciò che mette ansia e timore, e normalizzare la sensazione (della serie: guarda, succede a tanti, è normale, capita anche a me di sentirmi così).
E poi ti confermano una cosa che sai già, ovvero che il lavoro grosso, la terapia più importante e preziosa, è quella quotidiana che svolgono i genitori e le insegnanti nei confronti del bambino. Come dicevo, occorre agire sul contesto, sul contorno. La risposta ai propri comportamenti viene dagli altri, dall'esterno con cui ti relazioni. Stimolo, azione e reazione. 
Se lanci un sasso nell'acqua, le onde si increspano, si crea movimento. Cambiamento.
Se smetti di lanciare sassi, si fa calma piatta. Tutto resta immobile.
Mi rendo conto che a forza di assorbire il consiglio del "non insistere nel chiederle di parlare", ho cominciato a lasciar passare, a smettere di spronarla. Se prima Matilde salutava almeno con un cenno della mano, adesso saluto solo io, e lei mi segue tenendo gli occhi bassi, come niente fosse. 
Ma non va bene. Sono scivolata nell'altro estremo. Ho mollato troppo la corda. Il messaggio implicito che in questo modo lascio intendere è: va bene così, non importa che parli, tanto o lo fa la mamma per te, o non ti è più richiesto. A scuola, lei si accorge di avere comunque le attenzioni delle amiche e delle maestre e quindi: perché cambiare? Si rinforza un meccanismo di evitamento della parola. 
E' difficile però trovare la quadra, il giusto equilibrio, nell' incoraggiare senza pressare.
Eppure, è la cosa più sensata da fare: perché la voce la sai usare, non c'è nulla da temere, parlare è normale.
Devo insomma essere un po' psicologa io stessa. Scoprire insieme cosa fa spaventare Matilde, cosa la mette in agitazione: se è la paura di non essere udita, o quella di sbagliare, oppure quella di ricevere risposte negative o spiacevoli. 
E rendere queste paure normali, scioglierle. 
Non c'è nulla di male a sentirsi agitati o spaventati. 
Non sei diversa dagli altri, hai solo bisogno di più tempo per sentirti tranquilla.
Prova, fai un tentativo. Sbaglia, riprova. Io sono accanto a te per aiutarti a rialzati. 
Vai con le tue gambe, con le tue capacità, con la tua voglia di comunicare.
Ce la farai.
Se non oggi, domani brillerai. 
Piccoli passi.
Uno.
Due. 
Tre.




giovedì 13 ottobre 2016

Sentirsi diversi

Sto leggendo in questi giorni "I Quaderni. Dal silenzio il canto: storie di mutismo selettivo", una raccolta di testimonianze dirette, ventotto storie di chi ha attraversato il mutismo selettivo, di chi lo ha vissuto e ne è in qualche modo uscito. 
In qualche modo, sì.
Ma a che prezzo?
Crescendo, certo, con la maturità si acquistano più strumenti, più consapevolezza, più coraggio. Però, nel frattempo, quante cicatrici lascia dentro.

Pensieri che mi tornano alla mente.
Vado indietro nel tempo e mi vedo. 
Fino alle elementari ero una bambina spensierata, se vogliamo anche ingenua. Giocavo ancora con le Barbie, per dire. 
Poi, alle medie, comincia il periodo più crudele per buona parte dei ragazzi: l'adolescenza. Crudele, almeno, per chi ha dentro qualche fragilità in più. 
Il senso di inadeguatezza, le insicurezze, il corpo che cambia, la voglia di essere uguale agli altri. Perché, a quell'età, non vuoi essere chi sei, non vuoi essere unico, chissenefrega la ricerca di sé stessi: vuoi solo, disperatamente, essere uno di loro. Essere come loro
Me lo ricordo ancora, il gruppetto delle ragazze "giuste": fumano le prime sigarette, hanno i primi ragazzi, parlano per la prima volta del sesso. Di quello che sanno, e di quello che fanno. Sono ostentate, disinibite, sicure, grandi
Io le guardavo con un misto di attrazione e disapprovazione. Sentivo che non ero così, io, non ero una di loro. Ma erano loro quelle ricercate, quelle desiderate, quelle "fighe". E io lo volevo essere altrettanto: cercata, desiderata, figa. Invece chi ero? Quella timida, quella secchiona, la mela ancora acerba. Certo, avevo le mie amicizie, uscivo con le mie compagne, condividendo l'inevitabile passione per una delle boy band più in voga in quei primi anni novanta. 
Ma ero piena di insicurezza - così come tuttora, anche se un po' meno - forse anche per la troppa fretta di crescere che ti assale da adolescente. 
E così trascorrono gli anni fino al liceo, sempre un po' in disparte, sempre un po' nell'ombra, sempre tra le meno popolari. Per quale motivo questo bisogno di omologarsi, non lo so. Che poi, invece, nell'abbigliamento, ad esempio, non mi piaceva affatto avere le stesse cose di tutti quanti. Anzi, rivendicavo con orgoglio il fatto di essere l'unica, o quasi, a non indossare certe oscenità, come le scarpe da ginnastica con le zeppe. Per fortuna è durata poco, quella moda. 
Sentirsi diversi, essere considerati diversi, in un periodo della vita in cui sei una persona ancora in costruzione, in divenire, ecco, forse dà un bel knockout alla tua autostima. 
Ed è così che la si vive quando non ci si sente mai all'altezza, quando si crede di mancare di qualcosa, quando invece non si sa di avere qualcosa in più. Una forza speciale. Una consapevolezza matura. Una sensibilità maggiore.
Mi ricordo quanto mi hanno ferita certi commenti, certe battute, fatte nei miei confronti.
C'è stato un periodo, finito il liceo, nei primi anni di università, in cui mi accorgevo di essere per così dire "selettivamente muta" ma al contrario: io lo ero in modo intenzionale, volontario, persino provocatorio
Certo, all'interno di un gruppo non ho mai spiccato, sono sempre rimasta dietro agli altri. Però mi ricordo benissimo che quando uscivo con la compagnia che allora frequentavo - più per evitare la solitudine, che per una reale condivisione di interessi - mi imponevo di restare in silenzio, oppure di rispondere a monosillabi, senza partecipare ai discorsi, se non con sorrisi e cenni gestuali. Non mi piacevo, io, e non mi piaceva comportarmi così. Ma in me prevaleva un rifiuto, anzi una sfida, quasi a dire "vi metto alla prova: vediamo se qualcuno vuole davvero conoscermi, se qualcuno desidera davvero avvicinarsi a me, venire a rompere il muro che ho creato e cercare di scoprirmi."
Ce ne sarebbe, da psicanalizzare qui! 
Tornando alle battutine feroci, ricordo ancora di quando mi affibbiarono un aggettivo, anzi, una lettera. Non d'amore, no: una di quelle dell'alfabeto. In quell'anno, spopolava una canzone di Ligabue, dal titolo "Vivo, morto o X". Ecco, avete già capito chi era considerata la X. Neanche "morta", no. Proprio ics. Una incognita.
Da un lato, mi sembrava che facesse figo. Mi distingueva. Era quello che volevo, dopotutto, no? Dall'altro lato, però, mi faceva sentire disprezzata, scartata, una cosa che non si sa che cos'è e che cosa ci sta a fare.

Ecco, nel mutismo selettivo, lì sotto, c'è un substrato fatto di una miscela di sensazioni come quelle descritte. E leggere le storie de "I Quaderni" mi ha fatto ritornare a come mi sentivo, a quello che provavo in alcuni momenti del periodo passato. 
Non sentirsi adeguati, né capaci o sicuri, vergognarsi, avere paura di vergognarsi, temere il giudizio negativo degli altri - perché i più severi giudici di noi stessi siamo proprio noi stessi. 
Ci siamo passati in tanti, suppongo, chi più chi meno, attraverso questi stati d'animo indefiniti e scomodi. Ed è vero: crescendo, si superano. O almeno, si attenuano.
Però, provarli da piccoli, nel periodo della vita in cui ci si sente più liberi, più spensierati, più disinibiti - e le testimonianze di chi ha vissuto in prima persona il mutismo selettivo lo fanno emergere - fa sentire inevitabilmente diversi. 
Il che non è brutto o negativo, in sé. Ma togliere il velo d'ansia e di paura, che tiene in ostaggio dentro la gola quelle parole che non escono dalle bocche serrate dei bambini muti selettivi, dicevo, toglierlo con iniezioni di fiducia e autostima, ecco, quello fa sicuramente un gran bene.




venerdì 7 ottobre 2016

Il dialogo emozionale

Allora, com'è andata la giornata a scuola?
Ti è piaciuta la festa di ieri?
Vuoi giocare con le costruzioni?
Sei andata sull'altalena al parco?
E' buona la pizza?
Eccetera. Eccetera. Eccetera.
Mille domande
Nessuna risposta. 
Udibile, perlomeno.
Sì, no, con la testa. Oppure niente.
A volte mi metto ad osservare i dialoghi che avvengono tra Matilde e alcune figure che ruotano tra i nostri parenti. Oppure col padre, che la assilla particolarmente con le domande sui cibi consumati nel pasto scolastico. E più lui persevera, più lei si rifiuta di rispondere, infastidita. 
Diciamo che la parola dialogo - lo avevo spiegato anche qui - è un po' impropria. Perché il logos, da una delle due parti, è bloccato. E tutta questa raffica di domande, talvolta, mette a disagio anche me, che osservo. Mi sembrano soffocanti.
Che poi, le faccio anch'io, le domande. Solo che sto sempre più attenta a farne il meno possibile. Chi non fa domande, non si aspetta delle risposte: questo allenta la pressione a parlare, così l'ansia diminuisce.
Sì, perché esiste un modo per comunicare senza fare domande.
L'ho letto in uno degli estratti dal materiale bibliografico sul mutismo selettivo, che A.I.Mu.Se. mi ha messo a disposizione. 
Commentare quello che sta facendo o ha fatto, lasciarsi guidare completamente dalle sue idee, descrivere le sue azioni, lodare quello che fa e come lo fa, mostrare il proprio entusiasmo. E poi, quando il gioco non direttivo permette al bambino di rilassarsi e prendere l'iniziativa per un contatto verbale, lasciar completare la frase, fingendo di non ricordarsi più il nome di una cosa, oppure sbagliandolo di proposito, per suscitare la correzione. 
Un esempio. Anziché dire: "Prepari il caffè? Giochiamo con i pentolini?", usare dei commenti: "Ecco, hai messo la caffettiera sul fuoco. Ora hai preso la tazza verde. Brava, come stai attenta a non rovesciarla!"

A leggere le "istruzioni", però, torno in balia della confusione. 
Leggo da una parte che si dovrebbe cercare di rompere il circolo vizioso che tende a radicare il comportamento mutacico. 
Ogni volta che io stessa o qualcuno risponde al posto suo, per riempire quel tenace silenzio che lascia sospesa nell'aria ogni domanda, la bambina si libera sì dall'ansia, ma impara anche un meccanismo compensativo, per il quale "non c'è bisogno che io vinca la paura: qualcuno verrà in soccorso e parlerà al posto mio". I bambini selettivamente muti, infatti, si rendono conto che la loro comunicazione non verbale è efficace, e questo può, forse, far sì che non sentano nemmeno il bisogno di parlare. 
Dunque, vanno stimolati?
Da un'altra parte, invece, leggo il contrario. 
Ad esempio, Elisa Shipon-Blum dice che l'insegnante dovrebbe dare al bambino, soprattutto nel primo e più difficile periodo di conoscenza, "la possibilità di esprimersi attraverso il linguaggio non verbale, come i gesti convenzionali, le espressioni facciali, i movimenti del corpo oppure mediante l'impiego di scritti precedentemente elaborati, per poter comunicare le proprie esigenze e per sentirsi parte integrante del gruppo. Lo scopo iniziale non è quello di riuscire a far parlare il bambino, quanto piuttosto quello di garantirgli l'opportunità di comunicare attraverso mezzi alternativi, al fine di aumentare la sua tranquillità e serenità."
Quindi i cartoncini che abbiamo realizzato sono l'ideale?
Sospetto che questa confusione rifletta purtroppo la carenza di formazione che ancora si riscontra tra gli specialisti, oltre al fatto che ogni caso di mutismo selettivo è a sé, vista l'enorme variabilità di situazioni specifiche e di strategie da indovinare per ciascuno di essi. 
Ed ecco, appunto, uno degli obiettivi di A.I.Mu.Se. Far conoscere. Informare. Sensibilizzare.

Nel dialogo con Matilde, poi, ci sono dei momenti in cui mi rendo conto di alcune cose. Per me, importanti.
Stiamo giocando coi Playmobil. Simuliamo l'asilo, con tanto di insegnanti e una dozzina di bambini. Matilde ha voluto aggiungere anche la famiglia di caprette, giusto per dare un tocco country che non guasta. 
Li dispongo tutti in circolo e faccio annunciare alle maestre che si farà il gioco dell'appello. Entusiasmo, dall'altra parte. Bene. Dico: adesso chiamo il vostro nome, chi vuole può alzare la mano, oppure dire presente. Comincio con l' appello dei bimbi Playmobil. Ad alcuni di loro abbiamo associato i nomi dei suoi veri compagni, per somiglianza. Procedo uno per uno, scegliendo a caso nel cerchio, a volte dicendo presente a volte alzandogli il braccio. Arrivo all'omino corrispondente a Matilde, a cui muovo il braccio in alto. 
Interviene a quel punto con un'osservazione inaspettata.
"Ma la capretta è agitata quando deve dire il suo nome."
Eccola. Ecco la parola che dà nome al suo disagio. Agitata. Ha attribuito alla capretta, che sta partecipando all'appello, il fatto di essere agitata nel dover dire il proprio nome. Immagino che, per trasposizione, rappresenti il suo stato d'animo.
Così, dopo aver ribattuto con una risposta tranquillizzante, provo a sondare il terreno, a indagare. 
"Senti Matilde, ma tu ti senti agitata quando devi dire le cose alla maestra?" 
"No, le dice Sara per me." 
Ecco il mediatore
"E quando non c'è Sara?" 
"Lo dice Amira." 
Altro mediatore. 
"E se non c'è Amira?" 
"Lo dice Aurora." 
Andiamo avanti, prima o poi finirà la serie. 
"E se non c'è nemmeno Aurora?" 
Ecco, non ha più da ribattere, ha esaurito i mediatori. 
E allora propongo: "Puoi provare a sussurrare all'orecchio le parole alla maestra, così ti può aiutare lei." 
Mugugni di imbarazzo. Poi cambia gioco.

Alla sera, ci prepariamo per la nanna. 
"Voglio un po' di coccole."
"Ma certo, vieni qui!"
E così, tra baci e abbracci, le sussurro piano questa frase.
"Stai sempre tranquilla, perché anche se io non sono lì con te, ti penso sempre, ed è come se fossi lì insieme a te. Io ti penso sempre, sai."
"Anch'io ti penso sempre!"
"Allora, vedi? Anche se non siamo vicine, quando tu sei a scuola, e la mamma va a fare i suoi giri, se ci pensiamo è come se fossimo sempre insieme!"