giovedì 10 ottobre 2019

Prove tecniche di voce e parole

La scuola è già iniziata, e Matilde è ormai in terza elementare.
L'estate è già volata, e ci ha portato tre belle novità da raccontare qui.

La prima è stata a giugno, l'ultimo giorno di seconda elementare.
Matilde ha risposto a voce alla maestra che le chiedeva la tabellina. Fuori dalla classe, solo loro due, in disparte.
Stavano facendo un gioco seduti in cerchio, in cui ciascuno a turno doveva dire il risultato della tabellina. Per dare modo anche a Mati di dirlo, l'insegnante di matematica si è appartata con lei fuori dalla classe. E qui, invece che all'orecchio dell'insegnante, lei ha risposto a voce a distanza udibile.
Poi la maestra Filomena ha provato a spronarla anche in classe a provare, ma evidentemente Mati non se la sentiva, lei non voleva forzarla e quindi non ha più insistito.
Anche l'anno scorso, gli ultimi due giorni della classe prima, aveva preso coraggio per dire una parolina, quella volta all'orecchio, a entrambe le maestre e anche ai compagni. Evidentemente questa cosa dell' Ultimo Giorno di Scuola si sta consolidando come un'usanza tutta sua, un rituale rassicurante, un banco di prova per testare le sue possibilità.
Che stanno lentamente progredendo, senza dubbio.
Noi genitori, resi ciechi dal desiderio di vedere risolto tutto presto e subito, spesso non ce ne accorgiamo dei piccoli ma costanti passi avanti dei nostri figli. Loro continuano, impercettibilmente, a salire i gradini del loro personalissimo percorso. Anche se questi gradini sono posizionati a distanza di un anno l'uno dall'altro, non importa: significa che quello è il tempo a loro necessario per avanzare. Non siamo tutti sulla stessa strada: non abbiamo tutti lo stesso asfalto, le stesse pendenze, le stesse condizioni atmosferiche, lo stesso equipaggiamento. C'è chi ci metterà un giorno, chi ci metterà un anno, a percorrere quel cammino. L'importante è non fermarsi mai, per non rischiare di restare invischiati nelle paludose sabbie mobili della zona di comfort.
Continuare a tentare.

La seconda è stata a luglio, il primo giorno di centro estivo.
Matilde ha risposto a voce all'animatrice che le chiedeva il nome. Quella mattina avevo accompagnato lei e la sorellina in questo nuovo centro estivo, scelto unicamente per praticità logistica e per la possibilità di mandarci entrambe le bimbe.
Tutto nuovo: ambiente, bambini, educatori. Nessuno dei suoi compagni di classe. Nessuno sa che lei è la "bambina che non parla".
La sera prima, mentre parliamo di come funzionerà questo nuovo centro estivo, quasi a chiedere conferma per volersi preparare, Matilde mi dice: "Mamma, io lo so cosa ci faranno fare il primo giorno: ci faranno mettere tutti in cerchio e ci chiederanno il nome, a tutti!". Io le rispondo con estrema calma e tranquillità che, anche se dovesse succedere, non importa: se te la senti potrai dirlo, altrimenti non succede niente. La mattina dopo, mentre siamo in macchina dirette verso il centro estivo, Mati mi ripropone quella stessa considerazione. E io ripeto la stessa risposta.
Una volta arrivate, l'animatrice si presenta e ci accoglie, e ci lascia fare un piccolo giretto di ambientazione. Avevamo già fatto una prima perlustrazione la settimana precedente, proprio per dare modo alle bambine di conoscere l'ambiente e facilitarne l'inserimento. Non è la stessa animatrice con la quale avevo parlato durante l'iscrizione, alla quale avevo in seguito accennato al discorso del mutismo selettivo, dandole qualche essenziale informazione preliminare. E non so nemmeno se questa ragazza abbia avuto o no uno scambio con la collega, e quindi se sia o meno a conoscenza della situazione. Ad ogni modo, è molto tranquilla e rispettosa dei nostri tempi e spazi.
Finito quindi questo veloce giretto, tornando alla postazione dell'educatrice, avviene un brevissimo botta-e-risposta dove succede quel che non mi aspettavo, ma a cui felicemente assisto. La ragazza, rivolgendosi alle bambine, chiede: "Allora, chi delle due è Matilde e chi Michela?". Noi tre siamo di fronte a lei, a un paio di metri di distanza; alla mia sinistra c'è la piccolina, e alla mia destra ho Mati, che prontamente risponde dicendo a voce udibile: "Matilde". L'animatrice, senza battere ciglio, rilancia chiedendo: "E io, come mi chiamo?". E di nuovo, immediatamente, Matilde risponde: "Alessia".
Io, a dire il vero, lì per lì non ho subito realizzato che effettivamente era stata mia figlia ad aver pronunciato quelle parole. Perché per me quella è la quotidianità, la voce di Matilde è in ogni normale scambio di tutti i giorni. In un nanosecondo, però, in quella fulminea sequenza di sinapsi che si accendono e pensano "è davvero lei? sì o no? sì, sì, è proprio lei! wow, è davvero lei!" mi sono accorta che sì, era vero, e avevo appena assistito a una piccola grande dimostrazione di coraggio da parte di mia figlia.
Col cuore che mi esplodeva di gioia, l'ho salutata con un bacio, sussurrandole un "sei bravissima!" e augurandole una buona giornata.
La settimana è andata benone, il fatto non si è più ripetuto, ma sono rimasta davvero tanto contenta del passo da lei compiuto in questo tentativo di apertura verso la voce per gli altri. Che bello, questo tassello. Una piccola ma luminosa stellina di successo.

La terza è stata a settembre, qualche giorno prima dell'inizio della scuola, al parco Esploraria.
Quel pomeriggio di tarda estate eravamo in preda alla noia di non sapere cosa fare. Fuori il cielo era perfettamente sereno, la temperatura esterna al punto giusto. Decidiamo allora di andare in questo parco avventura nei pressi di Zocca, sull'appennino modenese, visto che l'offerta prometteva diversi percorsi di arrampicata e albering per bambini, e Matilde ne aveva già sperimentato uno proprio durante la giornata di gita organizzata dal centro estivo.
Arrivati sul posto, molto imboscato e poco popolato, ma immerso in una meravigliosa natura, ci fermiamo al banco dell'accoglienza. Chiediamo all'unico ragazzo dello staff lì presente: vorremmo dare un'occhiata prima, così le bambine decidono poi se farlo o meno. Vediamo una bambina, la sola che c'è, insieme alla sua famiglia, tutta imbragata e intenta a camminare lungo le passerelle e gli ostacoli sospesi tra gli alberi. Tutti i percorsi terminano con una carrucola a cui ti devi aggrappare e lanciare, fino ad arrivare alla rete da cui scendere.
Al termine della perlustrazione, Matilde è del tutto convinta che lo vuole provare. Si vede quando è contenta ed emozionata. Ha uno sguardo che parla.
Torniamo dal ragazzo dello staff, che molto tranquillamente le fa indossare l'imbragatura e l'aiuta a sistemarsela, le spiega brevemente che quegli aggeggi si chiamano moschettoni e come li deve agganciare. Ci spostiamo nel campo base per le istruzioni fondamentali.
Il ragazzo fa salire Matilde sulla prima piattaforma, sempre indicandole passo passo quello che deve fare. E' molto pacato, ma deciso, e si rivolge direttamente a lei, anche con una leggera aria di sufficienza, come di qualcuno che deve ripetere le stesse cose tutte le volte e ormai va avanti col pilota automatico. Spesso lui, mentre parla, guarda altrove: pochissimo contatto visivo. Quindi, investimento emotivo: minimo.
Quando è il momento di spiegare il significato del segno giallo indicato sui percorsi, il ragazzo si accerta che lei comprenda la distinzione dei colori. "Ok. Quello è il colore...?" Silenzio. "Che colore è quello?" ripete lui. Niente. Allora continua:
"E' il giallo: e quando vedi il segno giallo sulla corda significa che serve la carrucola. Come si fa a chiamare la carrucola? Si dice: carrucola, per favore!"
Matilde è lì, a un metro e mezzo da terra, sulla piattaforma che circonda il tronco di un fortissimo albero, imbragata come un salamino, con in testa un elmetto più grande di lei, con in mano uno dei due moschettoni, che ci guarda, che lo guarda, mentre lui ripete la domanda: "Allora? Sentiamo: come si fa a chiamare la carrucola?" Ancora niente. Io e il papà resistiamo, come da indicazioni della psicologa, ci asteniamo dall'intervenire al posto di nostra figlia. "Dai, forza! Fammi sentire come si dice!". Io comincio a frugarmi nella borsa, per scaricare la tensione, facendo una cosa qualsiasi pur di distogliermi dalla testa l'impulso a rispondere al posto suo. Invece ci pensa lei. 
"Carrucola..." dice Matilde. 
Ma non faccio in tempo a capire, che subito il ragazzo, non contento, puntualizza: "E poi?"
"Per favore..." lo accontenta lei. La sua voce è udibile, nel silenzio del parco, anche se un po' bassa.
Ma per l'ignaro istruttore non è sufficiente: "Eh, ma la carrucola è laggiù, lontana: non ti sente! Chiamala più forte per farla arrivare!"
E così Matilde dà fiato alla sua voce urlando: "Carrucola, per favore!!!"
Io e il papà ci guardiamo. Solo noi capiamo. Gioia interiore mascherata esteriormente da un "brava, sei riuscita ad avere la carrucola, grande!". Gioia interiore che ti fischiano persino le orecchie.
L'istruttore continua a spiegare, ci lascia al divertimento, Matilde fa tutti i percorsi, alcuni più volte, tentenna appena prima di lanciarsi con la carrucola, ma alla fine è quello il modo per scendere dagli alberi, come era quello il modo per chiamare la carrucola, ed ecco che si butta.

Questi suoi isolati exploit saranno il preludio a un nuovo coraggio?
Lo scopriremo vivendo. 
Di certo, le è servito per dimostrare a sé stessa che ce la può fare