sabato 17 dicembre 2016

L'angolo di imperfezione

Ma guardala. 
E' così bella, brava, buona. 
Non le manca nulla.
Se solo parlasse con gli altri...
Se solo non avesse questa cosa...
Se solo fosse, se solo non fosse.
Ma lei è.
Lei è Matilde.
Lei è meravigliosa così.
E non lo dico perché è mia figlia. Certo, ogni scarrafone è bell'a mamma sua, come ci cantava il buon Pino. Lo dico invece come lo direi per qualsiasi persona meravigliosa e umana di questo mondo, intrappolata soltanto in un recinto di stereotipi, etichette, pre-giudizi. Quelli degli altri. Che delimitano il terreno delle interpretazioni.
E' un meccanismo che scatta quasi automaticamente. Di una persona di colore, constatiamo prima di tutto l'aspetto della sua pelle, molto spesso fermandoci a quello senza ascoltare e approfondire. Di una persona con handicap, ci accorgiamo quasi soltanto della sua diversità, della sua difficoltà, della sua mancanza. Rispetto a noi. 
Ma noi chi, poi? Noi normodotati? E cosa significa poi essere nella norma? Avere caratteristiche fisiche in comune con molte altre persone? Comportarsi come comunemente ci si aspetta dagli altri? 
E chi invece non è così? Che poi, diciamocela tutta, siamo tutti un po' diversi. Nessuno è uguale agli altri. Per fortuna. Ma il fatto costante è che ci si accorge di più delle differenze, della nota stonata, dell'imperfezione. Piuttosto che del tutto armonico. Perdendosi, almeno in parte, questa straordinaria armoniosità.
Ecco. 
L'imperfezione. 
Che rapporto ha ciascuno di noi con la propria percezione nel sentirsi più o meno perfetti? Palandone con la psicologa che ci segue - segue noi genitori, per adesso, nell'aiutare a nostra volta Matilde - è emerso come ciascuno di noi possa trovare confortante e rassicurante il proprio angolino di imperfezione. 
L'importanza di conservare un aspetto della propria personalità, del proprio carattere, del proprio comportamento, libero da rigidi schemi perfettamente aderenti alle aspettative altrui. Uno spazio di sé stessi dove concedersi la libertà di poter sbagliare, o di poter lasciarsi andare al proprio modo di essere. 
Avevamo già accennato alla forte autodisciplina che dimostra di avere Matilde. Pretende molto da se stessa: lo vediamo da come si arrabbia quando non riesce in qualcosa o da come non accetti piccoli errori, piccole sbavature nel suo disegno, o segni grafici che ha tracciato, ma che non la soddisfano appieno. 
Quindi, ogni volta che le cose non vanno come lei vuole, o come lei si immagina, la sua aspettativa viene delusa, e questo la irrita, la infastidisce. E cosa succederà se le cose non vanno come lei crede? Ad esempio, in rapporto al giorno in cui parlerà anche a scuola, che reazioni immagina, cosa pensa che possa succedere? E se non andrà così? Bisognerà lavorare sugli scenari, sulle aspettative, sulle possibili conseguenze. Pre-vedere: vedere prima, appunto. E accettare anche delle possibili sbavature, a proposito di imperfezione. 
Questa storia della perfezione mi ha fatto pensare molto su me stessa. 
Complice la domanda della psicologa, che ha stimolato proprio la riflessione su di noi, su noi due genitori, a proposito di come ci percepiamo rispetto al rapporto perfezione/imperfezione, mi è subito venuto in mente, come un'improvvisa apparizione, un pensiero preciso. Che ho estemporaneamente esternato.
Il pensiero di aver interiorizzato, da sempre, in modo forte, la volontà di non deludere i miei genitori. Inaccettabile, inaffrontabile, inconcepibile, per me, il fatto di causare una delusione in loro. Provocherebbe in me un'immediata perdita di autostima. E infatti: mai una sigaretta, mai una canna, mai una sbronza. Le classiche sciocchezze che si fanno da giovani. 
"Ecco, invece io tutto l'opposto!" interviene prontamente il mio compagno, appena finisco di descrivermi.
"Ma è proprio per questo che funzionate come coppia!" mi viene in soccorso la dottoressa. E il suo commento è azzeccatissimo: è proprio così.
Interessante, parlarne durante le sedute. Vengono sempre alla luce un sacco di aspetti sorprendenti.

Nel frattempo, voglio cogliere il sensato consiglio della psicologa: quello di evitare di dare giustificazioni a tutti, a proposito del mutismo selettivo di mia figlia. 
Lasciar perdere, smettere di commentare la sua difficoltà o dare ogni volta spiegazioni a ogni persona che si approccia. Perché mi solleva da una fatica non necessaria. O meglio, da uno sforzo inutile. 
Non sono tenuta a spiegare sempre e comunque, né sono tenuta ad aggiornare costantemente tutti gli amici e parenti sui miglioramenti o sulle novità di Matilde rispetto alla sua parola in pubblico. 
Mi riferisco, ad esempio, all' episodio accaduto con la bidella dell'asilo. O al commento, stavolta da parte di una persona vicina a noi - che dunque sa perché gliene parlai - che, sull'onda dell'entusiasmo per aver sentito live la voce di Matilde, colta in flagrante perché voltata di spalle, si è lasciata sfuggire il più classico dei classici: 
"Ma allora ce l'hai, la lingua!" 
Certo. La lingua ce l'hanno tutti gli esseri umani e anche animali di questo pianeta. E' una parte anatomica. Semmai, dì: la voce. Ma la lingua no. Ancora con questa lingua. 
Mi sento stanca. Stanca di ricevere piccole delusioni. Ma come? Anche tu, che lo sai? Tu che sai di cosa si tratta? Allora non serve a nulla, parlarne. 
Ecco: come dicevo, questo lasciar perdere lo farò, nel tentativo di alleviare il carico di concentrazione attorno al problema. Spostare l'attenzione dal mutismo, come dicevamo. Per viverla più serenamente possibile. Per trasmettere ancora più tranquillitàA me. A lei. A tutti quanti intorno.
Per farle sentire che comunicare è bello, ma non importa quale canale si utilizza. Non deve essere per forza solo la parola. Adesso ti riesce così. Va bene. Andando avanti potrai sentire più forza, più coraggio, meno agitazione, meno paura. Potrai avere più strumenti: la scrittura, i messaggi. 
Quando sarai pronta per farlo, sarà bello scoprire che nessuno ti considera strana, nessuno ti deride, nessuno ti giudica
Vai, dolce Matilde: sicura e forte come un piccolo grande dinosauro.






domenica 4 dicembre 2016

Chiedimi cosa mi piace

"Oggi ho fatto io l'appello a scuola".
"Davvero, Matilde? E come hai fatto? Chiamavi i bambini? Parlavi?"
"No, facevo così!" 
Mostra il gesto. 
Poi aggiunge: "Sai che ho iniziato a parlare all'orecchio con Amira?"
"Davvero? Brava! E ti piace?"
"Sì!"
Matilde l'ha detto orgogliosa, come a sottolineare la soddisfazione di un successo personale.
E l'ha ripetuto anche ai nonni, qualche giorno dopo. Li ha voluti informare della sua piccola grande conquista
Sì, me lo ha confermato anche la maestra. E' stato dopo che lei è venuta a trovarci a casa nostra, un pomeriggio dopo la scuola. La mattina seguente Matilde in classe era più sciolta, ed era tutto un parlare all'orecchio di Amira ed Emma. 
Sono convinta che abbia avuto un effetto positivo, la visita della maestra. Insieme allo scambio di messaggi vocali con la sua amica del cuore. 
Ce n'è uno in particolare, dove Amira esprime tutta la sua autentica incredula felicità. In risposta al primo saluto telefonico di Matilde, l'amica scoppia in un: "Ma sei stata brava, Mati! Io ti... io... io... sono felicissima con te! Brava! Ti voglio tanto tanto bene."
E aggiunge: "Mati, mi devi fare poi una promessa: che mi fai sentire la tua voce."
Un'amica che crede in te, a cui ti puoi affidare, che si emoziona con te, è una cosa bellissima. E' tutto.
Questo legame può esserle davvero d'aiuto. Chissà. Me lo auguro. 
Ecco, vedi. L'ho augurato a me. Invece no. Glielo auguro. 

Siamo stati al secondo colloquio con la psicologa che ha iniziato a seguirci. 
Le abbiamo raccontato di com'era andata dopo il precedente incontro, delle risposte di Matilde all'esercizio sulle emozioni, di come si possa anche andare all'estremo nell'immaginare le conseguenze di quello che potrebbe succedere quando parlerà. 
Sarà interessante vedere anche un altro aspetto: come reagisce quando le cose non vanno come si immagina lei. Lei con il suo doversi sempre sentire autorizzata a. 
Per dire. Si alzava per prendere il pane, dopo che la maestra aveva interpretato il suo desiderio di averne un altro pezzo. Arrivava fino al cesto, si fermava. Immobile, non allungava la mano per prenderne uno, no. Solo quando la maestra faceva un cenno per spronarla, lei ne prendeva finalmente uno. 
Quale altro bambino aspetterebbe, invece di accaparrarsene subito tre o quattro pezzi? Quale altro bambino riuscirebbe ad auto-contenersi in questo modo?
L' auto-disciplina di Matilde è una caratteristica stra-ordinaria. Fuori dal comune. 
La psicologa ci ha poi dato un altro libro, da leggere insieme a nostra figlia. 
Titolo: Chiedimi cosa mi piace.
Spesso infatti ci dimentichiamo di farlo, non lo chiediamo. 
Troppo impegnati a proporre cose da fare, anziché ascoltare le preferenze dei nostri piccoli. 
Dare spazio ai loro pensieri, alle loro idee.
Lasciarli esprimere.
L'esercizio, stavolta, era quello di provare poi a chiedere a Matilde cosa piace, e cosa pensa che piaccia alle sue amiche. 
Così, a casa, dopo averlo letto, glielo domando. Lei risponde: a me piacciono gatti e pappagalli. E ad Amira? Non lo so, mi dice. Allora colgo l'occasione per suggerirle di provare a chiederlo, ad Amira, cosa le piace. Poi domando: e Amira sa che a te piacciono gatti e pappagalli? No, mi fa. Di nuovo propongo: allora prova a dirglielo, così potete giocare con le cose che vi piacciono, oppure scambiarvi i giochi e divertirvi insieme.
Domani racconteremo alla psicologa di com'è andata questa seconda lettura.

E racconterò anche di un piccolo confronto faticoso.
Quello che ha riguardato l'intromissione piuttosto fuori luogo da parte della bidella, proprio il giorno in cui la maestra mi riferiva del passo avanti di Matilde nel parlare all'orecchio alle amiche. 
Quel giorno andai a prenderla all'uscita e, mentre le infilavo il giubbotto per uscire, la bidella si avvicinò a noi due come mai aveva fatto prima ed esclamò: "Ma tua figlia è proprio furba! Io lo so che parla, me l'ha fatto sentire la maestra!"
E io, cercando di deglutire il disagio provocato da quella domanda sbagliata e inopportuna, risposi, davanti a mia figlia: "Ma non è furba. E' che vorrebbe ma ancora non riesce qui a far uscire le parole. Più avanti, quando se la sentirà, lo farà anche a scuola. Vero, Mati?"
Cosa vuoi rispondere con tua figlia lì accanto? Spero di aver usato le parole giuste, o le meno sbagliate. Però che fatica dover ripetere e spiegare e giustificare! 
E' una fatica emotiva. Un equilibrismoUn elefante che prova a muoversi evitando di urtare le porcellane. 
Qualcuno, sul gruppo Facebook di A.I.Mu.Se., una volta fece notare come molti, quando trattano di mutismo selettivo, si concentrino sulla parola mutismo, quando invece il concetto fondamentale è quello della selettività.
E' quella, la chiave di lettura. 
Si crede di poter riuscire a sbloccare i bambini muto selettivi raccomandandosi con loro di comportarsi nella maniera attesa, senza però considerare che loro non cominceranno certo a parlare perché siamo noi a pregarli di farlo. 
Lo faranno quando si creerà quella situazione di rilassatezza, di naturalezza - perché parlare è una cosa naturale - in cui saranno talmente a loro agio che verrà da sé, senza richieste, senza preghiere, senza raccomandazioni. 
Sposteranno finalmente l'attenzione da questa etichetta ingombrante, quella di "bambini che non parlano". Che è quello che in genere gli altri si preoccupano di sottolineare e di far continuamente notare. 
Perché la selettività, infatti, non è riferita alle persone. Non sono questi bambini a decidere con chi parlare e con chi no. 
La selettività è riferita alla situazione
E' il contesto ad attivare o meno il blocco. Prova ne è il fatto che anche con me a volte il canale verbale si interrompe, quando si sente maggiormente agitata o a disagio in una particolare situazione comunicativa.
Se si cominciasse a capire questo, sarebbe già un buon lavoro fatto.






venerdì 25 novembre 2016

L'inondazione

"E il giorno che parlerai a scuola, Matilde, come ti immagini che sarà?"
Davanti al libro aperto sulle emozioni spiacevoli rappresentate in nove figure mostruose o catastrofiche, lei mi indica quella corrispondente all'inondazione.
"Sarebbe come un'inondazione? Ho capito. Ti immagini allora come se ci fosse tanta acqua che invade tutti gli spazi. Beh, magari invece sarà soltanto come svuotare una bottiglietta d'acqua in un bicchiere. Una sensazione di benessere e freschezza, come quando si beve un bel bicchiere d'acqua dopo che si aveva tanta sete".
Il tema dell' acqua ritorna.
Per curiosa coincidenza, ci accompagna.

Questo era il "compito a casa" assegnatoci dalla psicologa durante il nostro primo incontro.
Piccole emozioni e grandi emozioni. Prendere un' emozione che sembra diventare troppo grande, troppo intensa, troppo spaventosa, e da cui ci si può sentire sopraffatti, come una forte rabbia, una grande paura, un fastidioso dolore - rappresentabili come un'eruzione, un incendio, o un'inondazione appunto - e renderla piccola, accettabile, positiva.
Dopo aver letto un paio di volte a Matilde la storia di "Uno scricciolo di nome Nonimporta", ho colto al volo - per fare questo esercizio, chiamiamolo così - l'occasione di un fatto avvenuto proprio quel pomeriggio. 
Festa di compleanno di una sua compagna. Giochi, torta, regali. Bimbi. Tanti bimbi. Matilde corre e rincorre le sue amiche nel grande salone affittato per la festa. Poco prima di andarcene, mi fermo a chiacchierare con un'altra mamma e la perdo di vista. 
Dopo un po', me la vedo tornare in lacrime, accompagnata da un papà e dalle sue amiche. "Che è successo?"
"Dice che suo fratello l'ha spinta", dichiara l'uomo.
"Ma noi non abbiamo fratelli maschi", preciso.
"Mio fratello! E' stato mio fratello!" interviene una delle due amichette.
"Ah, adesso ho capito".
Consolo Matilde più e più volte e, mentre siamo in bagno a rinfrescare il suo faccino triste e a controllare il suo ginocchio lievemente sbucciato per la caduta, le dico: "Sai, ci sono bambini che sono più attenti, più bravi, più educati, e altri che sono meno attenti, meno bravi e meno educati. Se il bimbo che ti ha spinta non l'ha fatto apposta, deve fare più attenzione la prossima volta; ma se invece lo ha fatto di proposito, bisogna dirglielo di non farlo più. Bisogna imparare a dire basta! non farmelo! così capisce anche lui che sta facendo una cosa sbagliata".
In questi casi non so mai se faccio bene o faccio male, non so mai come comportarmi nei confronti dell'altro soggetto coinvolto, se farlo presente ai genitori o lasciar perdere.
Però, anziché rimproverare gli altri, preferisco rafforzare mia figlia, parlare con lei, riflettere insieme sull'accaduto. Per darle strumenti, per farla crescere
Perché ci saranno sempre degli altri da cui doversi difendere, da dover affrontare. E io non posso pretendere di cambiare loro. Ma rendere più consapevole mia figlia, quello sì.
E così quella sera, approfittando dell'episodio accaduto alla festa, propongo a Matilde di fare un gioco. Lei mi segue. Prima di prepararci per la notte, ci mettiamo sul lettone io e lei, a rileggere la storia di Nonimporta. 
Dopo di ché, annuncio il gioco che faremo.
"Adesso Matilde, guarda queste immagini. C'è un temporale, una nebbia fitta e spaventosa, una valanga, un vulcano in eruzione, un mare in tempesta, un orribile mostro, un incendio, un terremoto, un'inondazione. Quando oggi pomeriggio alla festa sei stata spinta da quel bimbo, come ti sei sentita? Come immagini di esserti sentita, dentro di te? Ti immagini un'emozione come un temporale? O come un mare in tempesta?"
Indica l'immagine della valanga.
Proseguo subito chiedendole la stessa cosa per quando aveva perduto a scuola il suo giocattolo pappagallo. E mi segna il vulcano.
Introduco la terza e ultima domanda, quella citata all'inizio, su quando parlerà a scuola. E mi mostra l'inondazione.
Allora comincio a ridimensionare.
Sì, a volte può sembrare una valanga che travolge, ma magari è soltanto un... panettone che si sbriciola.
Sì, a volte può sembrare un vulcano che erutta, ma magari è come un... tappo di spumante durante una festa.
Sì, a volte può sembrare un fiume che allaga tutto quanto, ma magari è invece... come versare un po' acqua da una bottiglia in un bicchiere. 
Ammetto di aver maldestramente improvvisato. E non so se ho detto cose giuste o sbagliate.  
Ho notato che Matilde mi ascoltava con attenzione. Ma quale effetto avrà avuto?
Finito l'esercizio, il test, o come vuoi chiamarlo, la consegna era quella di chiudere lì l'argomento, e tornare a fare le attività abituali, senza più parlarne. E così ho fatto.
Vediamo al prossimo incontro cosa ci dirà la psicologa.
E vediamo se saremo capaci di surfare su tutta quest'acqua.




giovedì 17 novembre 2016

SCRIVIMI

Mandami una email a: chiara.mistri[@]aimuse.it
Attualmente sono la referente AIMuSe per l'Emilia Romagna.
Se vuoi ricevere informazioni, supporto, aiuto, oppure scambiare esperienze, segnalare testi, suggerire idee, entrare in rete e tenerti aggiornato sulle iniziative in programma, oppure anche solo condividere pensieri e sensazioni in merito al mutismo selettivo, scrivimi e sarò felice di poterti conoscere!
Ti aspetto!

N.B. nel digitare l'indirizzo email sopra citato, togli ovviamente le parentesi quadre! Io l'ho scritto in quel modo per scongiurare che programmi spam prelevino l'indirizzo dal blog, evitando così di ricevere posta indesiderata. 



lunedì 14 novembre 2016

Dalla sua parte

Il giorno in cui Matilde parlerà agli altri - perché succederà, questo lo diamo per scontato - sarà su tutti i giornali, su tutte le televisioni e gli schermi del mondo. 
L'evento sarà clamoroso. Farà un gran scalpore.
Tutti i riflettori saranno puntati su di lei. 
La folla esultante che l'acclama e l'applaude.
Sorpresa. Meraviglia.
Il miracolo
Alleluja.
Sì, lo so. Sto esasperando.
Ma esagero apposta, perché è così che Matilde la potrebbe vivere.
Potrebbe immaginarsi che le sue parole possano provocare una reazione del genere negli altri. 
Gli altri che attendono con tanta impazienza di sentirla.
Gli altri che si ingegnano per trovare un qualche modo di farla parlare. 
Gli altri che si sentono delusi, frustrati, perché i loro sforzi non servono. 
Perché non vedono risultati.
Perché Matilde non parla.
E questa rischia di diventare la sua connotazione principale, la sua unica etichetta. Una coperta rassicurante, certo, che ti identifica, che non ti fa essere anonima. Ma anche una trappola, da cui è difficile liberarsi. 
No, non deve essere così.
Matilde non è "la bambina che non parla".
Matilde è la bambina a cui piace ballare, che ha imparato la musica, che è brava a scuola, che fa bellissimi disegni, a cui piacciono gli animali, le costruzioni e i libri. Questa è lei. Poi, che non parli in certi contesti e con alcune persone, non è uno svantaggio, non dipende da quelle persone. E quelle con cui invece parla non sono privilegiate, non hanno particolari meriti rispetto alle altre.
Certo, quando Matilde dirà le sue parole agli altri, o le dirà anche in presenza di altri, non ne rimarrà impressionato il mondo intero. Ma tutto il suo piccolo mondo relazionale, sì. La sua famiglia, i suoi compagni di scuola, la maestra. 
Sarà inevitabilmente al centro dell'attenzione, che è paradossalmente proprio quello che un bambino muto selettivo vorrebbe evitare.
Lo dimostra anche il fatto che non vuole essere guardata, quando ad esempio mi parla in presenza di altri. Mi viene infatti vicino e si scherma coi miei capelli. Qui avevo raccontato di un episodio successo qualche tempo fa, di quando in una nostra conversazione si lasciò sfuggire una parola in presenza della zia, accorgendosi troppo tardi di quella sua "disattenzione" - e ben vengano queste disattenzioni! In quel caso, però, lode alla zia che rimase imperturbabile e in una posizione neutra di ascolto, senza avere alcuna reazione di meraviglia. Come se fosse - appunto - la cosa più naturale del mondo.

Questi spunti di riflessione "a caldo" vengono dal primo colloquio di oggi con la psicologa prescelta, a conclusione del tour tra gli specialisti della zona per individuare un professionista a cui affidarci. 
E così iniziamo un percorso.
La psicologa ci propone di mandare avanti noi genitori, innanzitutto. Cominciamo a usare noi qualche strategia. Noi che conosciamo più di chiunque altro nostra figlia, noi che siamo le sue prime figure di riferimento. 
"Lasciate perdere per adesso la questione della voce. Lasciate perdere questo fatto che lei non parla. Perché davvero può diventare la sua etichetta. Lei non è solo così. Quindi distogliete l'attenzione da questa cosa. Certo, il consiglio di fornirle occasioni per poter parlare va bene, ad esempio, quando invitate a casa un'amichetta, potete chiedere a Matilde: vai a chiamare la tua amica che facciamo merenda! Basta che le venga lasciata la possibilità di scegliere la modalità di comunicazione che vuole. Se chiamarla con un cenno, oppure usare le parole. L'importante è che sia libera di scegliere. Ma non insistete, non forzatela, non mettetela all'angolo."
"Voi siete dalla sua parte. Punto. Potete aiutarla, certo, siete lì per questo, ma voi siete dalla sua parte. Perché le volete bene, perché amate Matilde così com'è. Questo dev'essere ben chiaro. Anche perché se lei si accorge che state facendo qualche trucco, se percepisce che c'è dietro qualche strategia, allora sì che si rischia di perdere la sua fiducia. Ricordatevi che lei avverte le vostre sensazioni, sa leggervi attraverso. Voi siete nudi davanti a lei."
"Come reagisce lei nei confronti della rabbia? Cosa fa quando si sente arrabbiata? Non solo quando le succede qualcosa, ma anche quando ad esempio a scuola vede un'ingiustizia, oppure vive le dinamiche coi compagni. Perché dev'essere molto frustrante per lei non riuscire a esprimere questi stati d'animo, queste sensazioni. Sarà interessante lavorare anche su questo aspetto, sul modo in cui elabora e gestisce le sue emozioni."
Ci ha dato un libro, una breve storia illustrata per bambini. 
Per iniziare, attraverso il racconto, a far emergere le sue sensazioni quando avverte un'emozione particolare, quando in alcune circostanze si mette a piangere - come la volta in cui una bambina non la lasciava passare sulla scaletta dello scivolo. Oppure per capire come Matilde pensa che lei si potrà sentire quando parlerà - perché un giorno lo farà, è scontato.
Oltre alla favola, ci ha dato anche una guida alla lettura, che la accompagna. La guida contiene diversi spunti, per aiutare il bambino a esprimere le proprie emozioni interiori, spesso trattenute. Ci sono illustrazioni e immagini, corrispondenti a situazioni o cose negative - un temporale, un mostriciattolo, un terremoto - che il bambino può indicare per riferirsi al suo stato d'animo. Poi, compito del genitore o del terapeuta è quello di ridimensionare la cosa indicata e trasformarla in un'immagine positiva - le nuvole non sono temporalesche ma soffici e bianche, non era un mostro cattivo ma un bel gattino, non era la terra che trema ma il dondolio dell'altalena.
E così leggeremo la storia di Scricciolo Nonimporta, e del suo amico Ciccio Potevandarepeggio.
E peggio non andrà!




lunedì 7 novembre 2016

Una fiaba coinvolgente

Troviamo delle storie, delle favole per bambini, che parlino di voci e di silenzi, da leggere in classe, per coinvolgere Matilde e vedere come reagisce a questo tipo di stimolo sull'argomento. Cosa elabora, quali corde interiori le va a toccare. 
L'idea è della nostra amata maestra d'asilo, che sta prendendo a cuore in modo estremamente apprezzabile la difficoltà di mia figlia. 
Piena di gratitudine e di curiosità, cerco e mi informo.
Sul gruppo Facebook di AIMuSe, mi viene segnalato un testo: Acqua Dolce, di Andrea Bouchard. Consigliato però dai sette anni in su.
Va bene - dice la nostra maestra - proviamo a vedere, lo adatterò io.
Incomincio a leggere.

E' la storia di una bambina speciale, nata cadendo nel mare, nell'acqua di un'isola a forma di mezzaluna, l'Isola Verde, che si diceva fosse incantata, misteriosa, maledetta.
La bambina venne chiamata Acqua Dolce, perché le acque che circondavano l'isola erano stranamente dolci, prima di diventare, là più al largo, acque salate dove vivevano terribili squali.
Il padre le mise al collo un ciondolo portafortuna, una conchiglia a forma di mezzaluna, legata a una catenina: un simbolo per rappresentare il miracolo della sua nascita.
La bambina visse coi genitori per ventinove giorni nella splendida isola, con un gruppo di scimmie affezionate ad accudirla come baby sitter, un gabbiano e due delfini.
Poichè si narrava che chi rimaneva oltre un mese sull'isola veniva colpito dalla maledizione e non poteva più fare ritorno, la famiglia fuggì a bordo di una zattera. Durante la loro fuga, uno degli squali li attaccò e stava quasi per ingoiare la bambina, ma venne soffocato proprio dal ciondolo a forma di mezzaluna e dalla catenina che gli rimase impigliata tra i denti.
La bambina divenne triste dopo l'abbandono dell'isola e, una volta tornati ad abitare in città, si calmava solo a contatto con l'acqua. La mamma, per placare i suoi strilli disperati, era arrivata anche a costruirle un passeggiacqua, un passeggino che al posto della culla aveva una vaschetta piena d'acqua.
Poi, crescendo, Acqua Dolce si abituò a vivere come una bambina normale. O quasi. Sì perché da quando era nata, e fino ad allora, non aveva mai detto una sola parola. In compenso, nuotava coi delfini, dormiva con le tartarughe, e faceva altre cose strane e strabilianti.
I genitori, preoccupati del fatto che non parlasse, la portarono dai dottori, che però non riuscivano a trovare spiegazioni. Un dottore disse: "Sembra non parli perché non ne ha voglia". Il padre, infastidito, lo insultò, allora il dottore disse che aveva capito: "La bimba non parla perché non vuole diventare maleducata come voi genitori!"
Il padre cadde in depressione, non si capacitava del fatto che la figlia non parlasse. La madre, invece, diceva che non importava se era silenziosa, la sua piccola era stupenda, sapeva fare tante cose, le voleva bene così. La bambina, del resto, non sembrava affatto esserne preoccupata, era sempre allegra e sapeva fare tante cose, anche molto difficili.
Il primo giorno di scuola, alle elementari, Acqua era felice di poter conoscere nuovi compagni. La madre era invece nervosa, si raccomandava che si comportasse bene.
La maestra, quando all'appello arrivò il turno di Acqua Dolce, disse: "Attenzione, lei si chiama Acqua, non sa parlare, siate buoni con lei e aiutatela". I compagni invece la presero in giro, per il suo nome insolito. La maestra la credeva sorda o stupida, così le ripeteva più volte le cose perché pensava che la bambina non capisse. La imboccava, persino, e Acqua si sentiva in imbarazzo, ma non diceva nulla, perché non voleva deludere la madre che si era tanto raccomandata di ubbidire alla maestra.
Acqua però si stufò: un giorno chiamò il suo amico gabbiano che, volando come sempre sulla sua spalla, cominciò a fare un gran baccano per tutta la classe. Un'altra volta, Acqua, che stava insegnando ai suoi compagni le cose più strane, si mise a far gareggiare le lucertole e una scappò sulla cattedra della maestra, che si spaventò e si arrabbiò molto.
E così Acqua fu sospesa per tre giorni.
Ma quando tornò a scuola, ne combinò una ancora più grossa: lasciò aperti tutti i rubinetti dei bagni e allagò l'intera palestra.
La madre la mise in punizione: niente più zoo né acquario, dove la bambina andava sempre. Acqua divenne una bambina triste. "Devi diventare una bambina normale" le disse la madre, e la portò in una scuola diversa, anche perché là il direttore non la voleva più vedere.
La madre, nel periodo in cui Acqua rimase a casa da scuola, le insegnò a scrivere. Ma tutti i giorni la bambina correva in camera sua a piangere. Anche il padre era diventato triste, e muto come lei.
Acqua, visto che aveva imparato a scrivere, un giorno scrisse alla madre un biglietto: "Mamma, adesso sono cambiata, voglio essere una bambina normale, ti prego fammi tornare a scuola, ti voglio bene, non voglio deluderti più".
Tornò così a scuola, era brava in tutte le materie, ma non sorrideva più, e non giocava più con gli altri bambini.
I suoi compagni erano affascinati dalle sue straordinarie capacità di fare capriole, salti mortali, camminare sulle mani, e molte altre cose. Ma lei stava sempre sulle sue. Tra le sue compagne ce n'era una più tranquilla delle altre, e affascinata dal suo silenzio: Arianna, che divenne subito molto amica di Acqua Dolce.
Al suo decimo compleanno, la madre, pur di non vederla sempre così triste, volle far fare a sua figlia la cosa che più desiderava.
Acqua decise di andare al mare da sola.
Lì, sulla spiaggia, avvenne l'incontro magico della storia di Acqua, l'incontro con il Capitan Seppia, un vecchio marinaio che portava una folta barba bianca e sul petto un curioso ciondolo, una conchiglia proprio a forma di mezzaluna. Dopo averle chiesto il suo nome, e dopo che Acqua glielo scrisse su un biglietto, il marinaio disse: "Io lo so perché non parli. Tu sei un pesce fuor d'acqua. Trova il tuo mare e potrai parlare".
Acqua era confusa, spaventata, ma attratta da quel ciondolo, ed emozionata alle parole che aveva detto il vecchio: avrebbe davvero potuto aiutarla a parlare? Le batteva forte il cuore.
Il Capitan Seppia, dopo aver raccontato ad Acqua della terribile avventura sull'Isola Verde e di come riuscì a salvarsi dagli squali che avevano invece divorato i suoi compagni, chiese alla bambina, estremamente incuriosita dal suo ciondolo, se voleva prenderlo per guardarlo meglio da vicino. Acqua lo indossò, e quando si mise la conchiglia al collo disse: "E' BELLISSIMA".
Aveva pronunciato per la prima volta quelle due semplici parole come se avesse da sempre parlato. Ma subito se lo tolse e scappò via.
Tornata a scuola, Acqua Dolce progettava in quei giorni la fuga all'Isola Verde, di nascosto da tutti, genitori e maestra. I compagni accettarono volentieri di accompagnarla in quell'avventura verso l'Isola, perché le volevano bene e volevano aiutarla.
Il viaggio fu rocambolesco, ma alla fine ci riuscirono: arrivarono sulle spiagge dell'Isola Verde. Appena Acqua l'avvistò, dalla barca su cui stavano viaggiando, gridò con tutta la voce che aveva in gola: "Acquaaaaaa!!!"
La missione era cercare la sua conchiglia, ma nei giorni che rimasero sull'isola, la bambina e i suoi compagni si divertivano così tanto che se ne dimenticarono. Acqua era così contenta di poter parlare che lo faceva con tutto e tutti, sicura che la capissero.
Trascorsero diverse giornate, ma il compagno che si era incaricato di tenerne il conto si dimenticò di continuare a farlo, e ormai non sapevano più da quanti giorni erano lì. Provarono allora a tornare indietro, ma furono attaccati dai terribili squali.
Magicamente, comparve il Capitan Seppia, che riuscì a salvarli tutti. Il capitano regalò ad Acqua il suo ciondolo.
I genitori di Acqua erano al colmo della gioia nel sentirla parlare. Capirono quanto l'isola era importante per lei e le promisero di ritornarci.
Acqua era diventata molto amica di Arianna, con cui giocava e scherzava allegramente. Adesso non aveva più paura che la prendessero in giro, perché sull'isola si era sentita finalmente capita e amata da tutti i compagni.
Tornata in città, Acqua parlava proprio con tutti quanti. Talmente tanto che a volte la gola le bruciava, allora la madre le toglieva per qualche giorno il ciondolo e lei si godeva il silenzio. Aveva poi cominciato a farlo anche lei: le piaceva togliersi il ciondolo per un po', perché così sentiva meglio i profumi, i colori, il vento.
Fece anche un gioco con l'amica Arianna. Preparò un ciondolo uguale al suo, e le disse: "Me lo ha dato il Capitan Seppia. Se lo porti stando in silenzio, senza parlare, potrai imparare a farti capire dagli animali come faccio io. Ma attenta, perché se parlerai, se dirai anche solo una parola, rimarrai muta per sempre. Sei abbastanza coraggiosa da provare?" Arianna stava al gioco, e vedeva che funzionava: i gabbiani si avvicinavano a loro due, sedute silenziosamente sul molo. Pensò che il ciondolo fosse davvero magico.
Giocavano e si divertivano, e divennero sempre più amiche, legate da questo identico portafortuna.
Acqua, Arianna, Marco e Luca avevano formato un gruppetto stabile di amici, tutti quanti col ciondolo appeso al collo, divertendosi a fare il gioco del silenzio.
Acqua era felice e si sentiva davvero amica di tutti i suoi compagni. Ma era un po' scontenta, le mancava l'isola.
Ogni tanto, andava a trovare il Capitan Seppia, e rimaneva sulla sua barca anche a dormire. Le piaceva dormire lì, con le onde a cullare il suo sonno.
Acqua sognava di vivere su una barca e quando il marinaio Brezza, amico del capitano, cogliendo esattamente il suo desiderio, le propose di darle in regalo la sua vecchia imbarcazione, la ragazza accettò entusiasta.
E Acqua riuscì a rimetterla a nuovo: raccolse i soldi necessari al restauro della barca, organizzando spettacoli coi delfini, dove era lei stessa a ripetere quello che gli animali le mostravano di fare. Erano spettacoli all'incontrario.
La barca venne terminata che lei aveva quindici anni, e la chiamarono Arcobaleno.
La storia termina con un dolce sentimento d'amore: quello che sentono nascere dentro di loro Acqua Dolce e il figlio del marinaio Brezza.

E' un racconto articolato, sicuramente ricco di spunti per suggerire riflessioni e pensieri.
La nostra maestra ha anche pensato di poter cogliere alcuni elementi della storia, per proporre piccoli laboratori da realizzare in classe coi bambini. Ad esempio, creare il ciondolo portafortuna con laccetti e conchiglie.
E dato che il libro, di oltre cento pagine, ha purtroppo pochissime illustrazioni, la nostra maestra ha persino cercato e stampato le immagini di tutti i personaggi e gli scenari della storia.
Sono davvero curiosa di vedere cosa scaturirà dalla lettura collettiva di questo libro...


venerdì 28 ottobre 2016

Il percorso verso la voce

In modo millimetrico, avanziamo.
Avanza. 
Sì, perché io, anzi noi, siamo con lei. Ma è lei a metterci del suo. 
La sua forza, la sua volontà, le sue risorse.
Per trovare quella che è la sua modalità.
Attenzione, però: maneggiare con cura
Perché è come un animaletto, uno di quelli che le piacciono così tanto.
Una lumaca, una tartaruga, un riccio. 
Sempre per restare in tema slow, appunto.
Un animaletto che spunta fuori soltanto quando non avverte minacce intorno a sé. Ma che, non appena le sue antenne sempre all'erta captano anche un minimo pericolo, è subito pronto a scattare in ritirata. 
Pluff
Dentro la corazza, di nuovo al sicuro.
Ecco.
Il percorso verso la voce - o meglio, verso la sua voce davanti agli altri, davanti all'altro - è fatto di movimenti lenti, di tappe non dette, di traguardi impercettibili.
E a volte di passi indietro. Come nel ballo del pinguino.
Sempre per restare in tema di animali, appunto.
Avanti. Indietro.
Avanti, avanti, avanti.
E poi di nuovo daccapo.
Ma ogni passo avanti è una conquista, e ogni conquista comporta una fatica.

Una di queste ultime "fatiche" di Matilde è stato iniziare a spostare la sua bocca - quando vuole dirmi le cose in presenza di persone con le quali non parla - dal mio orecchio al mio naso.
Mi fa troppo solletico nell'orecchio! - le ho detto.
Eravamo una sera a casa dai nonni, che sono poi i miei genitori, in compagnia degli zii. Matilde ovviamente era entrata subito in modalità silenziosa appena loro erano entrati in casa. 
Non proprio silenziosa, bisogna precisarlo. Perché lei comunque continua a fare i suoi giochi allegri, a fare la "matta", a ridere, fare boccacce, mugolare, ridere ancora più forte, sbuffare, ringhiare, lanciare i suoi urletti. Il silenzio completo è abbastanza raro. Forse a scuola, ecco. Forse lì sorride, usa i gesti, le espressioni. Qualche suono. Non lo so, questo. Devo indagare in merito.
Dunque dicevamo: a un certo punto, mentre siamo lì in salotto a parlare di mal di schiena, di ginnastica, di pilates, di esercizi difficili - e mia zia prova sul tappeto a mostrarceli tutti - Matilde mi prende per mano e mi trascina nell'altra stanza. 
Lì, finalmente sole, mi dice, sempre a bassa voce, appiccicata al mio naso: "Mamma, chiamali tutti in camera da letto!"
Allora ci provo. Ti metto alla prova, piccola mia: "Se vuoi invitarli di là, chiediglielo tu!"
Sbuffa, ringhia, si infastidisce. Sa che può farlo, ma che non riesce. 
Io non voglio insistere, ma nemmeno cedere. 
Contrattiamo.
"Senti Matilde, facciamo così: tu puoi dire la parola mamma, una sola parola, e poi io dico la frase per invitarli. Va bene?"
Affare fatto.
Torniamo in salotto: mi siedo, mi salta in braccio, preme il suo naso al mio, afferra i miei capelli e li sistema ai lati delle nostre guance, a mo' di tendina. E in questa stramba posizione, per cercare di stare il più possibile nascosta, sussurra pianissimo "mamma".
Io allora li invito, e così andiamo tutti in camera ad applaudire Matilde felice, che si esibisce per noi in mille capriole sul lettone. 
Immagino quanto le sia costato, quel sussurro. Quanto le sia costata, quella negoziazione. Ogni volta deve lottare con l'animaletto che le imprigiona le parole nella gola.
Lo sa che può, che sa farlo, che sa parlare. E lo sa che noi lo sappiamo. Ma non ci riesce. E' più forte di lei. E' più grande di lei.
E allora, ogni volta che qualcuno insiste nel dirle "ma io so che sai parlare, io ho sentito la tua voce", ecco, ogni volta io immagino che Matilde pensi: certo, certo che so parlare, vorrei farlo, ma non ci riesco, quindi non ripetermelo, non farmelo ricordare, anzi fammelo proprio scordare, così io mi rilasso e nel gioco spensierato mi lascerò andare.

Comunque, Matilde è davvero brava nelle capriole.
Mi sono sentita orgogliosa, quando una delle sue due insegnanti di gioco-danza mi ha inaspettatamente detto: "Sai, Matilde è molto migliorata. Si fa coinvolgere molto di più, si impegna tanto, è davvero brava".
E io subito a puntualizzare: "Mi fa piacere! Però ha questo blocco, che la fa sentire agitata nel parlare, anche a scuola con la maestra che ormai conosce da anni..."
"Sì, ma non preoccuparti, perché è molto migliorata, vedo che fa proprio tutto".
Evvai, grande Matilde! Certo, non mi aspetto che parli alle lezioni di danza, o a quelle di musica - dove anche qui la disponibilissima insegnante è al corrente della sua difficoltà e dà ogni volta una valutazione molto positiva su di lei - ma che faccia un'attività che le piace, stando comunque in mezzo agli altri, in un ambiente sereno e rilassato.

Il percorso verso la voce passa anche da prove e tentativi.
Forse, anzi sicuramente, anche da sbagli ed errori.
Ma soprattutto da idee.
E così - grazie fondamentalmente all'estrema disponibilità della nostra carissima insegnante dell'asilo - ho proposto a Matilde di registrare un messaggio vocale per lei, per la sua maestra. 
Santa tecnologia! Il metodo dei messaggi vocali di whatsapp lo avevamo già utilizzato per comunicare con le sue amichette del cuore. A Matilde piace molto. E anche nel registrare frasi per la maestra era molto contenta. Davvero entusiasta. Tanto che ci aveva preso gusto e, dopo ogni messaggio, ne voleva fare subito un altro, e poi un altro ancora.
La voglia di comunicare ce l'ha. Si sente, si vede.
Cosa succede allora a scuola? Perché, invece di scoppiare a piangere quando vuole qualcosa che non riesce a esprimere, non tira fuori le sue risorse, il suo coraggio, e prova a dire cosa c'è? 
"Ma io a scuola non ho la voce".
Questo mi ha detto lei. Così mi ha risposto.
"Ma come, Mati? E dov'è finita la tua voce?"
"Ehm... nella mia buchetta!"
"Allora dobbiamo ricordarci di prenderla!"
Ecco.
Prossima tappa: tirare fuori la voce. Dalla buchetta.



giovedì 20 ottobre 2016

I piedi in acqua

Gradualità.
Avvicinarsi all'acqua. Sentire con l'alluce. 
Mettere un piede dentro. Poi anche l'altro.
Scendere al ginocchio. E avanti così, fino a provare a galleggiare.
Le paure, per superarle, bisogna affrontarle.
Piano piano.
Poco poco.
Se hai paura dell'acqua, cominci a prendere confidenza. Magari giocando un po', magari scivolando anche, magari divertendosi a schizzare l'acqua.
E solo dopo, quando ti sentirai pronto, ti tufferai.
Se hai paura di parlare, comincerai a fare piccoli passi, per imparare a superarla. 
Ho pure intitolato così questo blog! 
Il concetto chiave è proprio quello.
Andare per gradi.
Se Matilde adesso mi sussurra nell'orecchio, quando vuole comunicare con me in presenza di altri con i quali si sente a disagio, posso provare ad aumentare la distanza tra la sua bocca e il mio orecchio. Magari con una scusa: la mamma non riesce a chinarsi, oggi, ha mal di schiena. Oppure: sto finendo di pulire i piatti, adesso, dimmelo pure lo stesso. 
Posso anche provare a darle un piccolo input, per spronarla a far uscire le parole. Ad esempio, quando una delle sue amichette è ospite da noi, chiederle molto naturalmente: Matilde, chiama la tua amica che adesso vi faccio la merenda!
Ecco, di questo sento di avere più bisogno ora. 
Consigli, strategie, escamotage, trucchi. 
Chiamali come vuoi. 
Voglio un libretto di istruzioni.
In questi giorni sto - stiamo, io e il mio compagno - facendo un vero e proprio tour, tra gli specialisti della zona, per cercare quello a cui poterci affidare. La neuropsichiatria infantile, infatti, ti dà una diagnosi, ma non fa terapia. Non prende in carico. 
E così, a colloquio ormai con diversi professionisti, capisci molte cose. 
Capisci innanzitutto che ognuno ha il suo metodo, per cui il vecchio detto di "sentire prima più campane" è in questo caso molto conveniente. 
C'è quello che propone un lavoro intensivo in studio, solo con la bambina, per otto sedute a cadenza settimanale; chi preferisce iniziare gli incontri soltanto coi genitori, per studiare insieme quel programma di strategie da attuare; chi lavora su più fronti, coinvolgendo, oltre al bambino e ai genitori, anche gli insegnanti; chi, infine, ritiene di poter aspettare, nei casi meno gravi, prima di intervenire con una terapia diretta, e intanto provare a offrire quelle occasioni di stimolo per conoscere ciò che mette ansia e timore, e normalizzare la sensazione (della serie: guarda, succede a tanti, è normale, capita anche a me di sentirmi così).
E poi ti confermano una cosa che sai già, ovvero che il lavoro grosso, la terapia più importante e preziosa, è quella quotidiana che svolgono i genitori e le insegnanti nei confronti del bambino. Come dicevo, occorre agire sul contesto, sul contorno. La risposta ai propri comportamenti viene dagli altri, dall'esterno con cui ti relazioni. Stimolo, azione e reazione. 
Se lanci un sasso nell'acqua, le onde si increspano, si crea movimento. Cambiamento.
Se smetti di lanciare sassi, si fa calma piatta. Tutto resta immobile.
Mi rendo conto che a forza di assorbire il consiglio del "non insistere nel chiederle di parlare", ho cominciato a lasciar passare, a smettere di spronarla. Se prima Matilde salutava almeno con un cenno della mano, adesso saluto solo io, e lei mi segue tenendo gli occhi bassi, come niente fosse. 
Ma non va bene. Sono scivolata nell'altro estremo. Ho mollato troppo la corda. Il messaggio implicito che in questo modo lascio intendere è: va bene così, non importa che parli, tanto o lo fa la mamma per te, o non ti è più richiesto. A scuola, lei si accorge di avere comunque le attenzioni delle amiche e delle maestre e quindi: perché cambiare? Si rinforza un meccanismo di evitamento della parola. 
E' difficile però trovare la quadra, il giusto equilibrio, nell' incoraggiare senza pressare.
Eppure, è la cosa più sensata da fare: perché la voce la sai usare, non c'è nulla da temere, parlare è normale.
Devo insomma essere un po' psicologa io stessa. Scoprire insieme cosa fa spaventare Matilde, cosa la mette in agitazione: se è la paura di non essere udita, o quella di sbagliare, oppure quella di ricevere risposte negative o spiacevoli. 
E rendere queste paure normali, scioglierle. 
Non c'è nulla di male a sentirsi agitati o spaventati. 
Non sei diversa dagli altri, hai solo bisogno di più tempo per sentirti tranquilla.
Prova, fai un tentativo. Sbaglia, riprova. Io sono accanto a te per aiutarti a rialzati. 
Vai con le tue gambe, con le tue capacità, con la tua voglia di comunicare.
Ce la farai.
Se non oggi, domani brillerai. 
Piccoli passi.
Uno.
Due. 
Tre.




giovedì 13 ottobre 2016

Sentirsi diversi

Sto leggendo in questi giorni "I Quaderni. Dal silenzio il canto: storie di mutismo selettivo", una raccolta di testimonianze dirette, ventotto storie di chi ha attraversato il mutismo selettivo, di chi lo ha vissuto e ne è in qualche modo uscito. 
In qualche modo, sì.
Ma a che prezzo?
Crescendo, certo, con la maturità si acquistano più strumenti, più consapevolezza, più coraggio. Però, nel frattempo, quante cicatrici lascia dentro.

Pensieri che mi tornano alla mente.
Vado indietro nel tempo e mi vedo. 
Fino alle elementari ero una bambina spensierata, se vogliamo anche ingenua. Giocavo ancora con le Barbie, per dire. 
Poi, alle medie, comincia il periodo più crudele per buona parte dei ragazzi: l'adolescenza. Crudele, almeno, per chi ha dentro qualche fragilità in più. 
Il senso di inadeguatezza, le insicurezze, il corpo che cambia, la voglia di essere uguale agli altri. Perché, a quell'età, non vuoi essere chi sei, non vuoi essere unico, chissenefrega la ricerca di sé stessi: vuoi solo, disperatamente, essere uno di loro. Essere come loro
Me lo ricordo ancora, il gruppetto delle ragazze "giuste": fumano le prime sigarette, hanno i primi ragazzi, parlano per la prima volta del sesso. Di quello che sanno, e di quello che fanno. Sono ostentate, disinibite, sicure, grandi
Io le guardavo con un misto di attrazione e disapprovazione. Sentivo che non ero così, io, non ero una di loro. Ma erano loro quelle ricercate, quelle desiderate, quelle "fighe". E io lo volevo essere altrettanto: cercata, desiderata, figa. Invece chi ero? Quella timida, quella secchiona, la mela ancora acerba. Certo, avevo le mie amicizie, uscivo con le mie compagne, condividendo l'inevitabile passione per una delle boy band più in voga in quei primi anni novanta. 
Ma ero piena di insicurezza - così come tuttora, anche se un po' meno - forse anche per la troppa fretta di crescere che ti assale da adolescente. 
E così trascorrono gli anni fino al liceo, sempre un po' in disparte, sempre un po' nell'ombra, sempre tra le meno popolari. Per quale motivo questo bisogno di omologarsi, non lo so. Che poi, invece, nell'abbigliamento, ad esempio, non mi piaceva affatto avere le stesse cose di tutti quanti. Anzi, rivendicavo con orgoglio il fatto di essere l'unica, o quasi, a non indossare certe oscenità, come le scarpe da ginnastica con le zeppe. Per fortuna è durata poco, quella moda. 
Sentirsi diversi, essere considerati diversi, in un periodo della vita in cui sei una persona ancora in costruzione, in divenire, ecco, forse dà un bel knockout alla tua autostima. 
Ed è così che la si vive quando non ci si sente mai all'altezza, quando si crede di mancare di qualcosa, quando invece non si sa di avere qualcosa in più. Una forza speciale. Una consapevolezza matura. Una sensibilità maggiore.
Mi ricordo quanto mi hanno ferita certi commenti, certe battute, fatte nei miei confronti.
C'è stato un periodo, finito il liceo, nei primi anni di università, in cui mi accorgevo di essere per così dire "selettivamente muta" ma al contrario: io lo ero in modo intenzionale, volontario, persino provocatorio
Certo, all'interno di un gruppo non ho mai spiccato, sono sempre rimasta dietro agli altri. Però mi ricordo benissimo che quando uscivo con la compagnia che allora frequentavo - più per evitare la solitudine, che per una reale condivisione di interessi - mi imponevo di restare in silenzio, oppure di rispondere a monosillabi, senza partecipare ai discorsi, se non con sorrisi e cenni gestuali. Non mi piacevo, io, e non mi piaceva comportarmi così. Ma in me prevaleva un rifiuto, anzi una sfida, quasi a dire "vi metto alla prova: vediamo se qualcuno vuole davvero conoscermi, se qualcuno desidera davvero avvicinarsi a me, venire a rompere il muro che ho creato e cercare di scoprirmi."
Ce ne sarebbe, da psicanalizzare qui! 
Tornando alle battutine feroci, ricordo ancora di quando mi affibbiarono un aggettivo, anzi, una lettera. Non d'amore, no: una di quelle dell'alfabeto. In quell'anno, spopolava una canzone di Ligabue, dal titolo "Vivo, morto o X". Ecco, avete già capito chi era considerata la X. Neanche "morta", no. Proprio ics. Una incognita.
Da un lato, mi sembrava che facesse figo. Mi distingueva. Era quello che volevo, dopotutto, no? Dall'altro lato, però, mi faceva sentire disprezzata, scartata, una cosa che non si sa che cos'è e che cosa ci sta a fare.

Ecco, nel mutismo selettivo, lì sotto, c'è un substrato fatto di una miscela di sensazioni come quelle descritte. E leggere le storie de "I Quaderni" mi ha fatto ritornare a come mi sentivo, a quello che provavo in alcuni momenti del periodo passato. 
Non sentirsi adeguati, né capaci o sicuri, vergognarsi, avere paura di vergognarsi, temere il giudizio negativo degli altri - perché i più severi giudici di noi stessi siamo proprio noi stessi. 
Ci siamo passati in tanti, suppongo, chi più chi meno, attraverso questi stati d'animo indefiniti e scomodi. Ed è vero: crescendo, si superano. O almeno, si attenuano.
Però, provarli da piccoli, nel periodo della vita in cui ci si sente più liberi, più spensierati, più disinibiti - e le testimonianze di chi ha vissuto in prima persona il mutismo selettivo lo fanno emergere - fa sentire inevitabilmente diversi. 
Il che non è brutto o negativo, in sé. Ma togliere il velo d'ansia e di paura, che tiene in ostaggio dentro la gola quelle parole che non escono dalle bocche serrate dei bambini muti selettivi, dicevo, toglierlo con iniezioni di fiducia e autostima, ecco, quello fa sicuramente un gran bene.




venerdì 7 ottobre 2016

Il dialogo emozionale

Allora, com'è andata la giornata a scuola?
Ti è piaciuta la festa di ieri?
Vuoi giocare con le costruzioni?
Sei andata sull'altalena al parco?
E' buona la pizza?
Eccetera. Eccetera. Eccetera.
Mille domande
Nessuna risposta. 
Udibile, perlomeno.
Sì, no, con la testa. Oppure niente.
A volte mi metto ad osservare i dialoghi che avvengono tra Matilde e alcune figure che ruotano tra i nostri parenti. Oppure col padre, che la assilla particolarmente con le domande sui cibi consumati nel pasto scolastico. E più lui persevera, più lei si rifiuta di rispondere, infastidita. 
Diciamo che la parola dialogo - lo avevo spiegato anche qui - è un po' impropria. Perché il logos, da una delle due parti, è bloccato. E tutta questa raffica di domande, talvolta, mette a disagio anche me, che osservo. Mi sembrano soffocanti.
Che poi, le faccio anch'io, le domande. Solo che sto sempre più attenta a farne il meno possibile. Chi non fa domande, non si aspetta delle risposte: questo allenta la pressione a parlare, così l'ansia diminuisce.
Sì, perché esiste un modo per comunicare senza fare domande.
L'ho letto in uno degli estratti dal materiale bibliografico sul mutismo selettivo, che A.I.Mu.Se. mi ha messo a disposizione. 
Commentare quello che sta facendo o ha fatto, lasciarsi guidare completamente dalle sue idee, descrivere le sue azioni, lodare quello che fa e come lo fa, mostrare il proprio entusiasmo. E poi, quando il gioco non direttivo permette al bambino di rilassarsi e prendere l'iniziativa per un contatto verbale, lasciar completare la frase, fingendo di non ricordarsi più il nome di una cosa, oppure sbagliandolo di proposito, per suscitare la correzione. 
Un esempio. Anziché dire: "Prepari il caffè? Giochiamo con i pentolini?", usare dei commenti: "Ecco, hai messo la caffettiera sul fuoco. Ora hai preso la tazza verde. Brava, come stai attenta a non rovesciarla!"

A leggere le "istruzioni", però, torno in balia della confusione. 
Leggo da una parte che si dovrebbe cercare di rompere il circolo vizioso che tende a radicare il comportamento mutacico. 
Ogni volta che io stessa o qualcuno risponde al posto suo, per riempire quel tenace silenzio che lascia sospesa nell'aria ogni domanda, la bambina si libera sì dall'ansia, ma impara anche un meccanismo compensativo, per il quale "non c'è bisogno che io vinca la paura: qualcuno verrà in soccorso e parlerà al posto mio". I bambini selettivamente muti, infatti, si rendono conto che la loro comunicazione non verbale è efficace, e questo può, forse, far sì che non sentano nemmeno il bisogno di parlare. 
Dunque, vanno stimolati?
Da un'altra parte, invece, leggo il contrario. 
Ad esempio, Elisa Shipon-Blum dice che l'insegnante dovrebbe dare al bambino, soprattutto nel primo e più difficile periodo di conoscenza, "la possibilità di esprimersi attraverso il linguaggio non verbale, come i gesti convenzionali, le espressioni facciali, i movimenti del corpo oppure mediante l'impiego di scritti precedentemente elaborati, per poter comunicare le proprie esigenze e per sentirsi parte integrante del gruppo. Lo scopo iniziale non è quello di riuscire a far parlare il bambino, quanto piuttosto quello di garantirgli l'opportunità di comunicare attraverso mezzi alternativi, al fine di aumentare la sua tranquillità e serenità."
Quindi i cartoncini che abbiamo realizzato sono l'ideale?
Sospetto che questa confusione rifletta purtroppo la carenza di formazione che ancora si riscontra tra gli specialisti, oltre al fatto che ogni caso di mutismo selettivo è a sé, vista l'enorme variabilità di situazioni specifiche e di strategie da indovinare per ciascuno di essi. 
Ed ecco, appunto, uno degli obiettivi di A.I.Mu.Se. Far conoscere. Informare. Sensibilizzare.

Nel dialogo con Matilde, poi, ci sono dei momenti in cui mi rendo conto di alcune cose. Per me, importanti.
Stiamo giocando coi Playmobil. Simuliamo l'asilo, con tanto di insegnanti e una dozzina di bambini. Matilde ha voluto aggiungere anche la famiglia di caprette, giusto per dare un tocco country che non guasta. 
Li dispongo tutti in circolo e faccio annunciare alle maestre che si farà il gioco dell'appello. Entusiasmo, dall'altra parte. Bene. Dico: adesso chiamo il vostro nome, chi vuole può alzare la mano, oppure dire presente. Comincio con l' appello dei bimbi Playmobil. Ad alcuni di loro abbiamo associato i nomi dei suoi veri compagni, per somiglianza. Procedo uno per uno, scegliendo a caso nel cerchio, a volte dicendo presente a volte alzandogli il braccio. Arrivo all'omino corrispondente a Matilde, a cui muovo il braccio in alto. 
Interviene a quel punto con un'osservazione inaspettata.
"Ma la capretta è agitata quando deve dire il suo nome."
Eccola. Ecco la parola che dà nome al suo disagio. Agitata. Ha attribuito alla capretta, che sta partecipando all'appello, il fatto di essere agitata nel dover dire il proprio nome. Immagino che, per trasposizione, rappresenti il suo stato d'animo.
Così, dopo aver ribattuto con una risposta tranquillizzante, provo a sondare il terreno, a indagare. 
"Senti Matilde, ma tu ti senti agitata quando devi dire le cose alla maestra?" 
"No, le dice Sara per me." 
Ecco il mediatore
"E quando non c'è Sara?" 
"Lo dice Amira." 
Altro mediatore. 
"E se non c'è Amira?" 
"Lo dice Aurora." 
Andiamo avanti, prima o poi finirà la serie. 
"E se non c'è nemmeno Aurora?" 
Ecco, non ha più da ribattere, ha esaurito i mediatori. 
E allora propongo: "Puoi provare a sussurrare all'orecchio le parole alla maestra, così ti può aiutare lei." 
Mugugni di imbarazzo. Poi cambia gioco.

Alla sera, ci prepariamo per la nanna. 
"Voglio un po' di coccole."
"Ma certo, vieni qui!"
E così, tra baci e abbracci, le sussurro piano questa frase.
"Stai sempre tranquilla, perché anche se io non sono lì con te, ti penso sempre, ed è come se fossi lì insieme a te. Io ti penso sempre, sai."
"Anch'io ti penso sempre!"
"Allora, vedi? Anche se non siamo vicine, quando tu sei a scuola, e la mamma va a fare i suoi giri, se ci pensiamo è come se fossimo sempre insieme!"