martedì 13 settembre 2016

Sul possibile comunicare

Com'è difficile anche con milioni di parole! 
Intendersi. Capirsi. Comprendersi.
Figurarsi senza. 
Eppure, passano molti più messaggi attraverso la gestualità, la postura, le espressioni, che non con il linguaggio verbale. Nel comunicare con l'altro, le parole rappresentano solo il sette per cento di quello che trasmettiamo. Tutto il resto viene, appunto, dal nostro corpo.
Ne usiamo così tante, di parole! Ma ancor prima di essere ascoltati, veniamo vistiDopo quella dell'homo sapiens, siamo ormai nell'era dell'homo videns, delle immagini che costantemente ci invadono, colpiscono la nostra mente e plasmano la nostra percezione. Il primato della vista su tutti gli altri sensi. Dopo secoli di oralità, di storie tramandate di bocca in bocca e ascoltate da generazioni, è infine con gli occhi che abbiamo imparato a catturare i messaggi più potenti. Dalla scrittura all'arte visiva.
La nostra comunicazione è quasi completamente centrata sulle parole. Non siamo abituati ad altri modi di relazionarci. Del resto, il linguaggio verbale è soltanto un codice, un sistema che ci permette di essere tutti d'accordo sul significato di una cosa, quando vogliamo indicarla o riferirci ad essa anche in sua assenza. Se però domani, ad esempio, venisse stabilito che per dire "acqua" si debba fare una pernacchia, in tutti i bar, attorno alle tavole, sulle spiagge, si sentirebbero solo delle lingue scorreggianti. Questione di convenzioni.
E così, abbiamo deciso di usare le parole. E' piuttosto comodo, in effetti. E solitamente, in una interazione tra persone, tutti quanti ci aspettiamo che ci si parli l'uno con l'altro. Funziona così. Ma quando non funziona, invece?
A volte osservo Matilde nei suoi momenti di silenzio, di mutismo. Selettivo, come sempre. Cioè quando il canale verbale di comunicazione si interrompe con tutti gli altri - tranne che con me, ma a volte anche con me - appena entra in una situazione di socialità dove l'espressione verbale è attesa e richiesta. 
Con il suo cuginetto di otto anni, ad esempio - con cui parlava fino a non molto fa, ma da qualche tempo a questa parte non più, e forse il perché ha come sempre a che fare con l'aspetto richiestivo nell'interazione - si è creato un diverso modo di comunicare. O meglio, hanno trovato un sistema per ovviare alla difficoltà di Matilde nel far uscire le parole. O perlomeno, una maniera per consentirle di rispondere alle domande che lui le porge. Per capire, insomma, i suoi bisogni e desideri. Cosa vuole in quel momento. 
"Matilde, vuoi restare qui o andare a giocare? Così è restare, e così è giocare. Quale scegli?"
Glielo dice mentre le mostra il solo dito indice alzato, corrispondente alla prima opzione, e successivamente le due dita messe a V, per indicare la seconda proposta. 
Matilde fa con la mano il segno della V. 
Ovvio, giocare.
E così ho visto fare anche da altri parenti. Pugno destro, prima opzione, pugno sinistro, seconda opzione. Scegli. Matilde indica il pugno corrispondente alla cosa desiderata. 
Da un lato, quando osservo la scena, mi viene da pensare che venga sminuita. Mi dico: non è che non capisce, mia figlia, è solo temporaneamente ammutolita. E mi chiedo: si sentirà svilita da questo metodo? Si sentirà trattata da stupida? E' che io non lo so, come si sente lei. Non lo posso sapere. E mi dispiace, non saperlo. 
Ma poi, dall'altro lato, penso che invece non sia così. Se funziona, perché no? Vedo che lei lo accetta tranquillamente. Anzi, magari le risolve il problema del non riuscire a parlare. Si sentirà forse sollevata dall'ansia del dover rispondere. Una soluzione accettabile. Un compromesso transitorio. 
Comunicare.
Si. Può. Fare. 






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