venerdì 7 ottobre 2016

Il dialogo emozionale

Allora, com'è andata la giornata a scuola?
Ti è piaciuta la festa di ieri?
Vuoi giocare con le costruzioni?
Sei andata sull'altalena al parco?
E' buona la pizza?
Eccetera. Eccetera. Eccetera.
Mille domande
Nessuna risposta. 
Udibile, perlomeno.
Sì, no, con la testa. Oppure niente.
A volte mi metto ad osservare i dialoghi che avvengono tra Matilde e alcune figure che ruotano tra i nostri parenti. Oppure col padre, che la assilla particolarmente con le domande sui cibi consumati nel pasto scolastico. E più lui persevera, più lei si rifiuta di rispondere, infastidita. 
Diciamo che la parola dialogo - lo avevo spiegato anche qui - è un po' impropria. Perché il logos, da una delle due parti, è bloccato. E tutta questa raffica di domande, talvolta, mette a disagio anche me, che osservo. Mi sembrano soffocanti.
Che poi, le faccio anch'io, le domande. Solo che sto sempre più attenta a farne il meno possibile. Chi non fa domande, non si aspetta delle risposte: questo allenta la pressione a parlare, così l'ansia diminuisce.
Sì, perché esiste un modo per comunicare senza fare domande.
L'ho letto in uno degli estratti dal materiale bibliografico sul mutismo selettivo, che A.I.Mu.Se. mi ha messo a disposizione. 
Commentare quello che sta facendo o ha fatto, lasciarsi guidare completamente dalle sue idee, descrivere le sue azioni, lodare quello che fa e come lo fa, mostrare il proprio entusiasmo. E poi, quando il gioco non direttivo permette al bambino di rilassarsi e prendere l'iniziativa per un contatto verbale, lasciar completare la frase, fingendo di non ricordarsi più il nome di una cosa, oppure sbagliandolo di proposito, per suscitare la correzione. 
Un esempio. Anziché dire: "Prepari il caffè? Giochiamo con i pentolini?", usare dei commenti: "Ecco, hai messo la caffettiera sul fuoco. Ora hai preso la tazza verde. Brava, come stai attenta a non rovesciarla!"

A leggere le "istruzioni", però, torno in balia della confusione. 
Leggo da una parte che si dovrebbe cercare di rompere il circolo vizioso che tende a radicare il comportamento mutacico. 
Ogni volta che io stessa o qualcuno risponde al posto suo, per riempire quel tenace silenzio che lascia sospesa nell'aria ogni domanda, la bambina si libera sì dall'ansia, ma impara anche un meccanismo compensativo, per il quale "non c'è bisogno che io vinca la paura: qualcuno verrà in soccorso e parlerà al posto mio". I bambini selettivamente muti, infatti, si rendono conto che la loro comunicazione non verbale è efficace, e questo può, forse, far sì che non sentano nemmeno il bisogno di parlare. 
Dunque, vanno stimolati?
Da un'altra parte, invece, leggo il contrario. 
Ad esempio, Elisa Shipon-Blum dice che l'insegnante dovrebbe dare al bambino, soprattutto nel primo e più difficile periodo di conoscenza, "la possibilità di esprimersi attraverso il linguaggio non verbale, come i gesti convenzionali, le espressioni facciali, i movimenti del corpo oppure mediante l'impiego di scritti precedentemente elaborati, per poter comunicare le proprie esigenze e per sentirsi parte integrante del gruppo. Lo scopo iniziale non è quello di riuscire a far parlare il bambino, quanto piuttosto quello di garantirgli l'opportunità di comunicare attraverso mezzi alternativi, al fine di aumentare la sua tranquillità e serenità."
Quindi i cartoncini che abbiamo realizzato sono l'ideale?
Sospetto che questa confusione rifletta purtroppo la carenza di formazione che ancora si riscontra tra gli specialisti, oltre al fatto che ogni caso di mutismo selettivo è a sé, vista l'enorme variabilità di situazioni specifiche e di strategie da indovinare per ciascuno di essi. 
Ed ecco, appunto, uno degli obiettivi di A.I.Mu.Se. Far conoscere. Informare. Sensibilizzare.

Nel dialogo con Matilde, poi, ci sono dei momenti in cui mi rendo conto di alcune cose. Per me, importanti.
Stiamo giocando coi Playmobil. Simuliamo l'asilo, con tanto di insegnanti e una dozzina di bambini. Matilde ha voluto aggiungere anche la famiglia di caprette, giusto per dare un tocco country che non guasta. 
Li dispongo tutti in circolo e faccio annunciare alle maestre che si farà il gioco dell'appello. Entusiasmo, dall'altra parte. Bene. Dico: adesso chiamo il vostro nome, chi vuole può alzare la mano, oppure dire presente. Comincio con l' appello dei bimbi Playmobil. Ad alcuni di loro abbiamo associato i nomi dei suoi veri compagni, per somiglianza. Procedo uno per uno, scegliendo a caso nel cerchio, a volte dicendo presente a volte alzandogli il braccio. Arrivo all'omino corrispondente a Matilde, a cui muovo il braccio in alto. 
Interviene a quel punto con un'osservazione inaspettata.
"Ma la capretta è agitata quando deve dire il suo nome."
Eccola. Ecco la parola che dà nome al suo disagio. Agitata. Ha attribuito alla capretta, che sta partecipando all'appello, il fatto di essere agitata nel dover dire il proprio nome. Immagino che, per trasposizione, rappresenti il suo stato d'animo.
Così, dopo aver ribattuto con una risposta tranquillizzante, provo a sondare il terreno, a indagare. 
"Senti Matilde, ma tu ti senti agitata quando devi dire le cose alla maestra?" 
"No, le dice Sara per me." 
Ecco il mediatore
"E quando non c'è Sara?" 
"Lo dice Amira." 
Altro mediatore. 
"E se non c'è Amira?" 
"Lo dice Aurora." 
Andiamo avanti, prima o poi finirà la serie. 
"E se non c'è nemmeno Aurora?" 
Ecco, non ha più da ribattere, ha esaurito i mediatori. 
E allora propongo: "Puoi provare a sussurrare all'orecchio le parole alla maestra, così ti può aiutare lei." 
Mugugni di imbarazzo. Poi cambia gioco.

Alla sera, ci prepariamo per la nanna. 
"Voglio un po' di coccole."
"Ma certo, vieni qui!"
E così, tra baci e abbracci, le sussurro piano questa frase.
"Stai sempre tranquilla, perché anche se io non sono lì con te, ti penso sempre, ed è come se fossi lì insieme a te. Io ti penso sempre, sai."
"Anch'io ti penso sempre!"
"Allora, vedi? Anche se non siamo vicine, quando tu sei a scuola, e la mamma va a fare i suoi giri, se ci pensiamo è come se fossimo sempre insieme!"






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